Spesso lo sport fornisce metafore di vita convincenti. E la seconda mancata qualificazione al Mondiale dell’Italia del calcio è forse evocativa di altro, ovvero di un sistema Paese che nei decenni ha rallentato e perso competitività a vari livelli. In primis, a livello economico. Perché nel calcio moderno finanza e pallone sono due facce della stessa medaglia. L’exploit della vittoria agli Europei, quindi, da evento quasi controintuitivo rispetto alle recenti miserie del nostro calcio, diventa parte del racconto di un Paese con enormi potenzialità che riesce a esprimerle solo a intermittenza, zavorrato da una reticenza al cambiamento che non riesce a scrollarsi di dosso. E che, sovente, lo trascina verso il fondo.
Il declino economico dell’Italia (riflesso nello sport)
Le resa alla Macedona del Nord – come quella alla Svezia di quattro anni fa – è arrivata contro una squadra ben più povera di talento. Ed è frutto di un ventaglio di circostanze difficili da mettere in fila, ma che ha una genesi ben precedente. E che parte dall’impoverimento economico dell’Italia, passata dall’essere la quinta potenza economica all’inizio degli anni ‘90 all’attuale ottavo posto.
Secondo i dati Ocse, tra il 1990 e il 2020 i salari medi nell’Unione europea sono cresciuti per tutti tranne che per l’Italia, che fa segnare un -2,9% contro il +33,7% della Germania, il +31,1% della Francia e il +6,2% della Spagna. La nostra, inoltre, prima della pandemia era l’unica grande economia a non aver ancora ricucito la caduta di Pil registrata durante la grande crisi del 2008 e quella del debito sovrano nel 2011.
L’epoca dei mecenati
Tutto questo ha intaccato inevitabilmente l’industria calcistica. Il nostro calcio viveva degli investimenti di miliardari appassionati che riuscivano ad accaparrarsi i migliori calciatori al mondo. Ne sono esempi il Milan di Silvio Berlusconi, che collezionava Palloni d’oro in squadra e dominava in Europa (ben cinque Champions League sotto la sua gestione). Fino al triplete dell’Inter di Massimo Moratti, con Mourinho in panchina e fuoriclasse come Eto’o e Sneijder in campo.
In seguito, il nostro calcio ha imboccato un cammino d’involuzione inframezzato solo dalle due finali giocate (e perse) dalla Juventus (2015 e 2017). In Italia l’epoca dei presidenti mecenati si è trascinata per parecchio tempo, mentre da altre parti si evolveva. E la fine dei tempi d’oro della nostra economia ha fatto il resto.
L’inizio del declino
C’è un prima e un dopo, che per approssimazione si può identificare con la vittoria dell’Italia ai campionati del mondo del 2006 in Germania. Allora la Serie A era di gran lunga il campionato migliore al mondo, con i calciatori migliori. E questo vuol dire tanto per la produzione di talenti pronti per i palcoscenici più importanti a livello nazionale: allenarsi con i più forti, del resto, è anche un prerequisito per alzare il livello del proprio gioco. Da lì, di fatto, è iniziato il declino della nostra serie A. Dapprima lento, poi, dal 2010, inesorabile sul fronte dei risultati. Fino a questo 2022, in cui nessuna squadra italiana è riuscita ad andare oltre gli ottavi di finale in Champions League.
I miliardari stranieri e i fatturati che (non) ci sono
È accaduto perché, da una parte, a cambiare il volto del calcio e a spingere l’asticella verso l’alto sono arrivati miliardari di altri Paesi a investire in giro per l’Europa: dal Chelsea di Roman Abramovich, al Paris Saint Germain di Nasser Al-Khelaïfi. Dall’altra alcuni campionati, come la Premier League inglese, hanno svoltato investendo sulle strutture e trasformando le squadre di calcio in aziende. E diversi paesi sono stati evidentemente più bravi dell’Italia ad attirare gli investimenti esteri.
I fatturati delle squadre inglesi, oggi, non sono paragonabili a quelli delle squadre italiane. La Juventus è la squadra di Serie A che fattura di più (guarda caso, è tra le poche ad aver già investito su uno stadio di proprietà), con 480,7 milioni per la stagione 2020/2021. Il Manchester City, primo in Inghilterra, arriva a 689,6 milioni. La Juventus, se giocasse in Premier, sarebbe solo al sesto posto per ricavi.
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La differenza tra Premier e serie A
Non c’è partita anche per quanto riguarda i guadagni da diritti televisivi. La Premier incassa tre miliardi di euro l’anno, mentre la Serie A naviga poco sopra al miliardo. Come riporta Calcio e Finanza, nel 2020/2021 la squadra che ha incassato di meno in Inghilterra è stata lo Sheffield United, con 105,6 milioni di euro. L’Inter campione d’Italia, nella stessa stagione, non è arrivata a 100 milioni.
Bastano questi numeri a giustificare un solco che negli anni è diventato sempre più profondo. Ne ha senz’altro beneficiato la nazionale inglese, che è cresciuta di livello e ha ottenuto l’accesso alla semifinale al mondiale in Russia del 2018 e la finale a Euro 2020 (più vari successi a livello giovanile).
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Un calcio professionistico che si ritira sempre di più
La ricchezza di un campionato determina l’ammontare dei contributi riservati alle squadre delle serie inferiori, in passato utili a individuare campioni in provincia. Roberto Baggio, per esempio, crebbe nel Vicenza, Alessandro Del Piero nel Padova, Christian Vieri nel Prato. Dal 2010, però, le squadre professionistiche sono calate di numero: da 132 alle 100 attuali. E, specie in serie C, fanno sempre più fatica a stare in piedi.
Per ovviare al problema si è fatto rincorso al modello spagnolo delle squadre B. Un esperimento che, a oggi, è un fallimento totale e ha raccolto l’adesione della sola Juventus U23. Anche questo è lo specchio dell’impoverimento del nostro calcio, ossia la voglia di rincorrere modelli che hanno funzionato in altri paesi, in contesti diversi. E, ammesso che siano adatti alla nostra realtà, non avere nemmeno la capacità di realizzarli a dovere.
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Non è tutto da buttare
Nonostante tutto, però, l’Italia ha ancora tecnici e giocatori di livello. La vittoria agli Europei è stata frutto di un allenatore, Roberto Mancini, che ha proposto un’idea di calcio spettacolare e pragmatica allo stesso tempo. Quella di una squadra in grado di divertire, ma anche di difendersi e pensare al risultato quando serviva. È la dimostrazione che, con idee nuove, l’Italia può ancora esprimere un enorme potenziale. Infortuni, presunzione e una rosa non lunghissima hanno determinato il disastro contro la Macedonia, che tuttavia ha ben altri connotati rispetto a quello maturato contro la Svezia. Allora fu necessario ricostruire da zero, oggi una base c’è. Sia di uomini, sia di idee.
È chiaro che per ritrovare la continuità di un tempo, però, al nostro calcio serviranno – solo per cominciare – riforme, capacità di attrarre investimenti esteri, stadi nuovi. Ancora una volta, però, il parallelo tra l’Italia del calcio e quella economica, delle imprese e delle industrie, c’è. Ci sono il Pnrr, i suoi miliardi, la tradizione e le competenze. Basta solo non rovinare tutto.
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