Prima di lanciare Katakem, la startup che ha generato il robot OnePot, Marco Francardi ha operato tra Mecca e Medina, nella Gedda desiderosa di spiccare il volo verso la modernità. Ha lasciato i deserti sauditi per le Alpi svizzere collaborando in qualità di fisico specializzato in nanotecnologie con il Cnr, l’Epfl di Losanna e l’IIT di Genova. Nel frattempo Francardi ha conosciuto Manuela Oliverio, poi sua moglie e cofondatrice di Katakem, docente di Chimica all’Università di Catanzaro con esperienze all’Università di Torino, al Karl-Franzens Universitat di Graz, al Cnrs di Montpelllier II e all’ IIT di Genova.
È a Catanzaro che la coppia ha deciso di avviare una startup il cui nome – Katakem – è un richiamo alla collocazione geografica. Il punto di partenza è stato un chiaro bisogno, come spiega Oliverio: “La ricerca nei laboratori di chimica viene portata avanti con gli stessi strumenti e le stesse modalità di 200 anni fa”. Nello specifico, i tanti processi che vengono ancora condotti manualmente sono stati automatizzati dal robot OnePot che, per intenderci, funziona come il Bimby in cucina: si carica la “ricetta” dell’operazione e il robot la esegue. E così operazioni che chiedono ai chimici sei mesi di lavoro possono essere ultimate in una settimana, assicura Francardi, ceo dell’azienda.
Katakem è nata nel settembre 2019. Avete appena chiuso il percorso di accelerazione di Berkeley SkyDeck Europe, in MIND, la cittadella dell’innovazione alle porte di Milano. Quali i prossimi passaggi?
Siamo già entrati in produzione ed entro la fine di febbraio saremo sul mercato con le prime tre macchine, saranno 55 entro il 2023. O almeno questo è l’obiettivo.
Costi dell’apparecchio?
In questi casi sono prediletti contratti di comodato inclusivi di manutenzione e assistenza. Per il robot più piccolo, l’abbonamento parte da 3 mila euro mensili: l’equivalente di uno stipendio, vero, ma è altrettanto vero che così si permette ai ricercatori di liberarsi da lavori di routine concentrandosi su attività a più alto valore aggiunto.
Possibile che nei laboratori chimici di tutto il mondo la manualità sia ancora così prevalente?
Sono stati introdotti strumenti che svolgono operazioni isolate. Nella ricerca e sviluppo poi si tende a confondere l’automazione delle operazioni con la totale eliminazione della partecipazione umana col risultato che il chimico si sente sminuito e perde l’entusiasmo per la ricerca. Non dimentichiamoci che i professori di chimica tutt’oggi spiegano agli studenti che un processo lo devi vedere, “la preparazione galenica di creme la devi sentire con le dita”, ho sentito dire.
OnePot invece?
È un robot che consente al ricercatore di essere innovativo, veloce e di ridurre il margine di errore. Il punto di forza sta anche nell’eliminazione della casualità degli eventi.
Così non nasce la Nutella di turno.
Può essere. Ma per ogni Nutella che nasce ogni 50 anni, ogni anno l’umanità perde centinaia, se non migliaia, di scoperte che non si verificano per l’incapacità a riprodurre operazioni. Meglio standardizzare processi consolidati e comprovati affidandoli a un robot e lasciare tempo ai chimici per creare. Ricordo un ricercatore indiano che produsse nanoparticelle fantastiche, ma non riuscendo a ricostruire il processo non le poté replicare. La ricerca invece deve essere riproducibile.
Chi sono i vostri clienti tipo?
Sono i chimici impegnati nella R&D e nella produzione nei settori della cosmetica, nutraceutica e pharma. Prevediamo comunque di aprirci progressivamente a tutti i settori che richiedono una trasformazione chimica. Al momento puntiamo a centri di ricerca, università, reparti R&D di corporate, reparti di produzione per molecole a bassi volumi di produzione ed alto valore aggiunto.
Per anni lei è stato ricercatore. Come valuta questa sua esperienza?
Lo confesso. A un certo punto mi sentii insoddisfatto. Dico una cosa impopolare: il problema della ricerca non sta soltanto nel fatto che il Paese vi investe poco, ma anche nella zavorra dei troppi ricercatori sotto gli standard richiesti. Dovrebbe esserci una selezione più accurata, meritocratica.
E così via nel deserto. Come si lavora a Gedda?
Avevamo a disposizione strumenti avveniristici, stipendi importanti ma mancavano le risorse umane. Lì mi fu chiara una cosa: non sempre i grandi finanziamenti riescono a compensare la mancanza di capitale umano e senza il capitale umano di qualità non si va da nessuna parte. E comunque nel frattempo una serie di idee e progetti frullavano nella mia testa. Fino a quello vincente, o almeno spero.
Si può vincere anche in Calabria?
Sono talmente convinto di questo che l’anno scorso abbiamo acquistato la sede operativa ricavando al suo interno una cellula produttiva che via via replicheremo assecondando la domanda del mercato.
Riesce a convincere anche i suoi collaboratori?
Un nostro ingegnere gestionale e il direttore marketing erano sulla piazza milanese. Su questo fronte avrò più dati tra qualche mese perché siamo in 12 ma conto di quadruplicare la squadra entro l’anno.
Le risorse più difficili da reperire?
L’ingegnere elettronico. Va letteralmente a ruba.
Un bilancio dell’esperienza in Mind.
Premessa. Più che un progetto è ancora una visione, cosa comprensibile se si pensa a quanto sia ambizioso, e considerato chi l’ha patrocinato non può che esserlo. Andrà però risolto il problema logistico. MIND andrebbe meglio collegato agli aeroporti, dovrebbe poi essere dotato di infrastrutture in grado di accogliere i visitatori. La nostra esperienza è comunque molto stata positiva, anzitutto sul lato investitori: abbiamo raccolto parecchi contatti sia italiani sia stranieri.
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