Articolo tratto dal numero di maggio 2023 di Forbes Italia. Abbonati!
Deserto australiano: sole e vento, arbusti e terra rossa disabitata. Per migliaia di chilometri. Siamo nella parte occidentale del Paese, nella regione di Pilbara. Ci sono strade polverose attraversate da camion che vanno e vengono dalle enormi miniere di ferro di Christmas Creek. È un luogo per nulla ospitale. Ma fra poco ci sarà almeno un motivo per avventurarsi qui. Assistere al successo (o al fallimento) di un gioco di prestigio da Re Mida del nuovo millennio: trasformare l’acqua in carburante pulito. Il sole arrostisce e il vento soffia forte. Sono i due elementi basilari della scommessa – energia rinnovabile a bassissimo costo – senza i quali il gioco sarebbe ancora più difficile.
Un consorzio di società energetiche guidate dall’inglese Bp ha messo le mani su una distesa di terra otto volte più grande della superficie di New York. Intende ricoprirla con 1.743 turbine eoliche alte come l’Empire State Building, cioè quasi 400 metri, e circa dieci milioni di pannelli solari. L’obiettivo è produrre 26 gigawatt d’energia, quasi un terzo dell’attuale fabbisogno australiano. Ma nemmeno un briciolo di quell’energia entrerà nella rete elettrica. Servirà per qualcos’altro. Dall’Australia esce il 38% dell’offerta di minerale di ferro nel mondo.
Torniamo a quei camion che viaggiano da Christmas Creek al porto di Hedland. Ormai si è capito che i metalli – soprattutto le terre rare – sono il carburante imprescindibile nel progresso delle tecnologie verdi e digitali. La Banca Mondiale dice che la produzione di metalli e minerali dovrà aumentare del 500% entro il 2050, se il mondo vuole tenere a bada il cambiamento climatico. Le miniere: un lavoro sporco, ma necessario. Ed è qui che verrà messo alla prova il gioco di prestigio di Bp e del suo consorzio: ottenere idrogeno dall’acqua e farlo con fonti rinnovabili – sole e vento – abbassando il più possibile i costi.
Lo champagne della transizione energetica
L’idrogeno è considerato da molti un po’ come lo champagne della transizione energetica. È un carburante pulito, bruciarlo rilascia solo vapore acqueo e la speranza è che possa sostituire le fonti fossili, o ridurne l’uso, in alcuni dei settori più inquinanti dell’economia. Le rinnovabili infatti possono condurci solo fino a un certo punto. Vanno bene per l’energia elettrica. Tuttavia, spiegano parecchi esperti, è molto difficile ‘elettrificare’ industrie pesanti come la produzione d’acciaio, o l’aviazione e altri trasporti su lunghe distanze, e anche tanti processi nell’agricoltura.
Per ora, sostengono, in questi settori non sembra esserci una vera alternativa all’energia di carbone, gas e petrolio. La loro speranza, e ormai dietro ci sono investimenti per centinaia di miliardi di dollari, è che prenda piede l’idrogeno. In effetti l’anno scorso ci sono stati molti sussidi governativi per accelerare l’impegno sull’idrogeno in Unione europea, India, Australia e tanti altri paesi. Negli Stati Uniti l’Inflation Reduction Act, la storica legislazione sul clima dell’amministrazione Biden, vuole ridurre di un quarto il costo interno dell’idrogeno verde in meno di un decennio, attraverso incentivi fiscali e 9,5 miliardi di dollari in sovvenzioni.
Tutti i colori dell’idrogeno
Il punto, come forse si sarà già capito, è che l’idrogeno non sempre è verde. Gran parte di questo gas oggi è prodotto con combustibili fossili e genera ogni anno parecchie tonnellate di anidride carbonica. Quindi non si tratta di un vero carburante pulito. Ecco il problema. Il compromesso finora è stato l’idrogeno blu. Anch’esso è ottenuto bruciando carburante fossile, ma la CO2 viene poi catturata e immagazzinata, oppure riutilizzata. Già questo è un procedimento che fa aumentare i costi.
L’idrogeno verde li fa crescere ancora di più. Si produce attraverso l’elettrolisi dell’acqua alimentata da elettricità pulita, sole e vento, che scompone l’acqua nei due elementi essenziali: idrogeno e ossigeno. Se le previsioni più ottimistiche si riveleranno corrette, l’idrogeno verde usato nell’industria pesante (soprattutto nella produzione di acciaio, che inquina moltissimo) potrebbe ridurre le emissioni globali di anidride carbonica del 5%, se non due o tre volte tanto, ha affermato un articolo del New York Times. Sempre l’idrogeno verde, secondo i calcoli dell’Agenzia internazionale per l’energia, potrebbe soddisfare entro il 2050 il 10% del fabbisogno energetico globale.
Gli sponsor dell’idrogeno
L’idrogeno attrae seguaci nelle industrie tradizionalmente più sporche: uno dei suoi più grandi sostenitori è il capo della miniera a Christmas Creek, Andrew Forrest, secondo uomo più ricco d’Australia. Nella sua azienda, la Fortescue Metals Group, pochi lo presero sul serio quando disse di volere ripulire tutto a suon di batterie elettriche, idrogeno verde e ammoniaca verde, un combustibile derivato dall’idrogeno.
Forrest è convinto di non inseguire un miraggio. Dice che entro la fine del decennio farà risparmiare ai suoi azionisti un miliardo di dollari l’anno usando idrogeno verde nelle miniere, e in futuro la sua azienda produrrà idrogeno in dozzine di siti in tutto il mondo. Sia Fortescue che Bp vorrebbero assumere la leadership in questo settore, con decine di miliardi di dollari investiti nell’idrogeno verde in moltissimi paesi oltre all’Australia: dall’Oman alla Mauritania, fino al Brasile e agli Stati Uniti. Basta che ci siano vento e sole.
Scettici e realisti
Ma come ogni epopea che si rispetti, anche quella dell’idrogeno ha i suoi antagonisti: gli scettici. O forse, semplicemente, i realisti. Saul Griffith, un grosso innovatore nel campo delle rinnovabili, che ha iniziato la sua carriera in un’acciaieria australiana, non crede che l’idrogeno avrà un ruolo così importante. Al New York Times ha spiegato: “Per sostituire i combustibili fossili, l’elettricità prodotta con l’idrogeno dovrà essere incredibilmente economica. E si pone la seguente domanda: se riusciremo a ottenere così tanta elettricità pulita a un così basso costo, perché usarla per produrre idrogeno?”. Quest’ultima è una questione che vale la pena di approfondire.
Non c’è dubbio che l’idrogeno verde, se davvero acquisisse il peso nell’economia auspicato dai suoi sostenitori, richiederebbe un aumento esponenziale della capacità delle reti elettriche globali. Vediamo, ad esempio, cosa sta succedendo in Europa. L’obiettivo di Bruxelles è produrre dieci milioni di tonnellate di idrogeno verde entro il 2030 nell’Unione europea. In un regolamento proposto recentemente, inoltre, la Commissione europea chiede che entro il 2028 l’idrogeno verde sia generato solo da fonti rinnovabili di nuova installazione, quindi non da pannelli solari e pale eoliche già esistenti. Questo per non aggiungere nuova produzione di combustibili fossili per soddisfare altre richieste. Ma queste regole, così congegnate, impongono un aumento monstre dell’elettricità rinnovabile europea (l’idrogeno verde, ricordiamolo, si ricava dall’elettrolisi dell’acqua alimentata da fonti pulite).
Si calcola, quindi, che raggiungere gli obiettivi di produzione interna Ue di idrogeno verde richieda circa 500 terawattora di nuova elettricità entro il 2030, più o meno equivalente all’attuale consumo energetico annuo della Germania, ha affermato un editoriale del Wall Street Journal. Oggi la produzione di energia rinnovabile nell’Unione europea vale 1.100 terawattora; produrre così tanto idrogeno richiederebbe quindi un aumento delle energie rinnovabili del 44%. Un’ovvia soluzione, ha ipotizzato il Wsj, potrebbe essere quella di affidarsi di più al nucleare, che ha il vantaggio di offrire energia in modo stabile, libera da vincoli climatici. Basti ricordare che la crisi del gas europea, cominciata prima della guerra in Ucraina, era stata innescata anche da una produzione scarsa di energia eolica. Un anno di vento debole in Inghilterra. Più nucleare, quindi, stabilizzerebbe la rete elettrica.
La dipendenza dalla Cina
E c’è poi il tema della dipendenza dalla Cina per i metalli critici e le terre rare, con cui si costruiscono i dispositivi delle energie rinnovabili. La Cina in questo settore è predominante. Tanto per cominciare, controlla il 61% della raffinazione globale del litio. E indirettamente controlla anche il cobalto, necessario per le batterie agli ioni di litio. Il 70% della fornitura globale di cobalto, infatti, proviene dalle miniere della Repubblica Democratica del Congo, molte delle quali sono di proprietà cinese. Pechino poi gestisce il 100% della lavorazione della grafite naturale usata per gli anodi delle batterie. Ultimo dettaglio, forse il dato più impressionante: dalla Cina passa l’80% della produzione e raffinazione di terre rare.
La politica americana sull’idrogeno
Ma l’idrogeno, nonostante tutto, resta incredibilmente attraente. La spinta più forte sarà il denaro messo a disposizione dal governo degli Stati Uniti. Secondo Wood Mackenzie, l’Inflation Reduction Act (che in realtà è una legge sul cambiamento climatico) porterà gli investimenti in rinnovabili a quota 114 miliardi di dollari l’anno entro il 2031. A differenza del groviglio di regole europee, la politica americana sull’idrogeno, affermano gli esperti, è chiara e molto potente. Il governo intende offrire incentivi straordinari per abbassare i prezzi. Oggi molti progetti di idrogeno verde non riescono a competere con le forme più sporche di idrogeno, che in genere costano circa 2 dollari al chilo. Ebbene, i sussidi americani faranno scendere il costo dell’idrogeno verde sotto il dollaro al chilo, ha previsto l’Economist. E alcuni progetti, nelle aree più ventose e assolate, potrebbero avere persino costi negativi.
E l’Europa? Con una politica industriale americana così aggressiva, non rischia di restare indietro? Probabilmente sì, almeno nel breve-medio periodo, risponde Bernd Heid, partner senior di McKinsey. Secondo Heid, l’America scavalcherà l’Europa nell’attrarre progetti sull’idrogeno, con investimenti totali che potrebbero raggiungere i 100 miliardi di dollari entro il 2030.
Che cosa succede in Europa
Ma anche in Europa le cose sembrano muoversi con discreta energia. Sono cominciati due grossi progetti di acciaio pulito, attraverso l’idrogeno, in Svezia e Finlandia. È sempre utile ricordarlo: l’industria siderurgica genera ogni anno tra il 7 e il 9% delle emissioni globali di anidride carbonica, il gas serra principale. Quindi abbassare le emissioni è fondamentale. La prima delle iniziative in questione è Blastr Green Steel in Finlandia. Si tratta di un investimento di quattro miliardi di euro. L’obiettivo è un’acciaieria green in grado di produrre 2,5 milioni di tonnellate dal 2026. Al posto del carbone, idrogeno verde ottenuto in loco con elettrolizzatori alimentati da fonti rinnovabili. Stessa cosa in Svezia. Anche se lì il produttore, H2 Green Steel, vorrebbe sfornare il doppio di acciaio pulito, cinque milioni di tonnellate nel 2030. Quanto pulito? Blastr ricorda che attualmente la produzione di una tonnellata di acciaio genera circa 1,9 tonnellate di CO2. Con il nuovo impianto, si punta a ridurre le emissioni complessive del 95% rispetto ai metodi tradizionali.
E tuttavia c’è chi ancora si dimostra scettico. In Italia, dove l’acciaio genera 60 miliardi di euro e conta 33.400 occupati, la rivista Industria Italiana, ad esempio, scrive che l’idrogeno verde “non è l’unica soluzione e neppure la migliore”. Spiega perché il professor Carlo Mapelli del Politecnico di Milano: il minerale di ferro diventa acciaio con un processo di riduzione, cioè di separazione dall’ossigeno, e per ottenerla si può usare l’idrogeno invece del monossido di carbonio. Ma a quel punto ci si troverebbe con una lega di metallo completamente priva di carbonio. Pulita ma inutile. Perché il metallo, per essere duttile e versatile, ha bisogno di una piccola percentuale di carbonio, che andrebbe aggiunta in un secondo momento. Fatalmente, inquinando, cioè rilasciando CO2. Per abbattere le emissioni, allora, bisognerebbe catturare la CO2, oppure usare carbonio di origine biologica. Ma l’idrogeno verde non è da buttar via, scrive Industria Italiana. Potrebbe essere usato comunque per ovviare all’inquinamento metallurgico dei rottami, riducendo l’anidride carbonica. La strada giusta è una combinazione di strategie: idrogeno, poi cattura e stoccaggio della CO2, e c’è spazio anche per le batterie. Un forno elettrico in sostituzione del tradizionale altoforno.
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