Articolo tratto dal numero di agosto 2023 di Forbes Italia. Abbonati!
“L’Asia orientale è l’Ucraina di domani”. Così, in maniera netta, si è espresso il premier giapponese Fumio Kishida riguardo alla situazione geopolitica nell’Indo Pacifico. Il suo paese, che per molti anni è stato considerato “ambiguo e lontano”, come lo definiva Rudyard Kipling, oggi è quantomai vicino all’Occidente e centrale nello scacchiere geostrategico e militare internazionale. Il Giappone, infatti, geograficamente è stretto tra Cina, Russia e Corea del Nord. È anche vicino a Taiwan, isola fondamentale per la produzione di semiconduttori, al centro delle rivendicazioni di riunificazione cinesi.
Il governo di Tokyo, a dicembre 2022, ha stabilito con tre atti – il National Security Strategy, il National Defense Strategy e il Defense Force Development Plan – nuove strategie per la difesa del suo paese. In sostanza, il Giappone ha rivisto parzialmente il principio di autodifesa presente nella sua costituzione, riservandosi di colpire per primo un nemico in caso di assoluta necessità e in condizioni che facciano pensare a un imminente attacco. È un punto di svolta epocale per la politica estera e militare del paese. Tra le prime mosse del nuovo corso ci sono l’aumento della spesa militare dall’1% al 2% del Pil entro il 2027, la firma di un accordo di cooperazione militare con il governo britannico e un ordine da oltre 3 miliardi di dollari per l’acquisto di missili a lunga gittata che possono colpire a oltre 1.600 chilometri di distanza.
Antiche rivalità
Questa commessa, contestuale all’acquisto di altri 400 missili americani Tomahawk a lungo raggio, serve da deterrente per la Corea del Nord, la Cina e la stessa Russia, che più volte hanno effettuato test missilistici ed esercitazioni militari ai confini delle acque territoriali giapponesi. L’ultima provocazione, in ordine di tempo è arrivata a nord dell’isola di Hokkaido: una massiccia esercitazione della Marina russa che ha coinvolto elicotteri, navi da guerra, sommergibili e oltre 25mila militari. Con la Russia, poi, è in atto da decenni un contenzioso sulla sovranità delle isole Curili, originariamente giapponesi, ma occupate dai sovietici dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Le trattative con Mosca per una risoluzione si sono interrotte dopo l’appoggio di Tokyo alla causa ucraina.
Tra Giappone e Cina la rivalità è ben più antica e deriva dall’invasione giapponese della Manciuria nel 1931 e dalla colonizzazione che ne seguì fino al 1945. Da allora i due stati si sono sempre temuti e ancora oggi Pechino rivendica la sovranità delle isole Senkaku, un arcipelago strategico per la sua vicinanza a Taiwan, che le permetterebbe un accerchiamento da nord. Kishida ha definito a più riprese la Cina come “la più grande sfida strategica affrontata dal Giappone dalla Seconda guerra mondiale a oggi”.
Il rapporto Giappone-Cina
Se dal punto di vista politico e strategico Pechino viene considerata ostile, a livello economico è il primo partner del Giappone: il 25% delle importazioni di Tokyo arrivano dalla Cina e il 22% dell’export giapponese va a Pechino. Il governo Kishida, però, vuole sganciare il più possibile la sua economia da un partner ritenuto ormai troppo ingombrante e scomodo. L’economia giapponese, terza a livello mondiale per Pil, ha due problemi ben più gravi della dipendenza dalla Cina: il più basso livello di produttività dei paesi del G7 e una crescita asfittica. Inoltre ha uno dei tassi di crescita demografica più bassi al mondo e circa il 20% della popolazione è over 75.
Il governo ha preparato un piano di investimenti per la transizione digitale ed ecologica da oltre 75 miliardi di dollari in cinque anni e incentivi monetari per i cittadini che si trasferiscono dalle città alle zone a più alto rischio spopolamento. Alle politiche fiscali espansive si accompagnano politiche monetarie simili da parte della Banca centrale giapponese, che ha mantenuto il costo del denaro sotto lo zero (-0,1%), in controtendenza rispetto alle altre banche centrali dei paesi sviluppati. L’obiettivo è stimolare la crescita di un’economia a forte vocazione esportatrice con iniezioni di liquidità e con la svalutazione dello yen.
Nonostante ciò, a maggio l’export ha subito una flessione del 3,5% rispetto ad aprile per via del calo delle importazioni dalla Cina. Un dato che conferma come il “disaccoppiamento” dell’economia giapponese (e generalmente di tutte quelle occidentali) dalla Cina non sarà indolore e rallentare Pechino comporterà una parziale frenata anche della crescita dell’Occidente. Kishida, comunque, resta convinto nel frenare lo sviluppo economico del vicino impedendogli l’accesso alle tecnologie più avanzate. Obiettivo condiviso dagli Stati Uniti, che hanno proposto un’alleanza Chip4 con Giappone, Taiwan e Corea del Sud per escludere la Cina dalla catena di approvvigionamento dei microprocessori.
La teoria di Mark Twain
La strategia americana, però, potrebbe sortire l’effetto indesiderato di accrescere il nazionalismo di Pechino, accelerando così una riunificazione, anche non pacifica, con Taiwan. Il presidente cinese Xi Jinping ha sempre definito Taiwan “una questione di politica interna”, avvertendo gli occidentali di non immischiarsi. Inoltre, colpire Pechino sui semiconduttori, fondamentali per il suo sviluppo, potrebbe equivalere a una dichiarazione di guerra.
Allo stesso tempo, la politica di riarmo di Tokyo ha fatto dire al portavoce del ministro degli Esteri cinese che “il Giappone dovrebbe riflettere sulla sua storia di aggressione militarista e trarre lezioni, invece di alimentare il fuoco”. Nel 1941, infatti, la politica imperialista giapponese, culminata con l’attacco alla base navale americana di Pearl Harbor, fece scoppiare la guerra anche nell’Indo Pacifico. “Temo di aver svegliato un gigante che dormiva e di averlo riempito di determinazione”, disse, dopo Pearl Harbor, il generale Isoroku Yamamoto. E se, come sosteneva Mark Twain, “la storia non si ripete, ma spesso fa rima”, questa volta a risvegliarsi potrebbe non essere il gigante americano, ma quello cinese.
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