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Strategia

Perché il mare è il nuovo fronte della partita tra Stati Uniti e Cina

Articolo tratto dal numero di maggio 2024 di Forbes Italia. Abbonati!

“Chi ha il dominio del mare ha il dominio di tutto”. Così Temistocle esponeva la sua idea di talassocrazia, dal greco ‘dominio del mare’, appunto. Il generale ateniese fu il primo a convincere i suoi concittadini a creare una flotta imponente per sconfiggere i persiani. Nella storia le grandi potenze hanno sempre avuto nel controllo dei mari: Atene, l’Impero Romano con il Mare Nostrum, l’Impero britannico d’oltremare, difeso dalla Royal Navy, più recentemente anche gli Stati Uniti. Allo stesso modo le sconfitte navali spesso hanno segnato il declino delle nazioni: si pensi alla sconfitta del Giappone alle Midway nel 1942 e, in misura minore, alla disfatta di Capo Matapan per la Regia marina italiana nella Seconda Guerra Mondiale. I destini di interi popoli si sono giocati spesso non sulla terra ferma, ma sul mare.

L’ammiraglio statunitense Mahan sosteneva che il potere marittimo “sottintende una dimensione sia economica che militare” e che “le potenze fautrici del libero commercio devono possedere una forza militare che garantisca l’effettiva libertà del mare”. Suggerimenti seguiti alla lettera dai vertici statunitensi, che dal secondo Dopoguerra hanno imperniato il loro predominio economico globale anche sulla marina militare. Stati Uniti e Regno Unito hanno inviato di recente navi da guerra nel Mar Rosso per difendere la loro flotta commerciale dagli attacchi dei ribelli sciiti Houthi, iniziati nel novembre 2023. Visto che il 90% delle merci globali viaggia via mare, la protezione dei commerci è diventata un problema di sicurezza nazionale. L’Italia, che importa l’80% delle merci e ne esporta il 90% via mare, ha inviato il cacciatorpediniere Caio Duilio nel Mar Rosso.

Nel 2020 l’Organizzazione mondiale del commercio ha stimato che il settore marittimo è responsabile del 53% del commercio cinese. Per questo la Cina negli anni ha sviluppato la prima flotta commerciale al mondo e, secondo l’Economist, ha superato gli Stati Uniti nel numero di navi da guerra. Gli investimenti maggiori – meno visibili, ma strategicamente più rilevanti – sono nelle infrastrutture portuali e nella logistica.

Il controllo dei porti europei

Tra il 2004 e il 2021 Pechino ha siglato, secondo una ricerca commissionata dal Parlamento Ue, 24 accordi di acquisizione e 13 progetti di investimento in Europa, per un controvalore di 9 miliardi di euro, tramite Cosco e China Merchants Port, due soe (state-owned enterprise), società partecipate dal governo cinese. China Merchants Port ha rilevato il 49% della Terminal Link, joint venture con la francese Cma Ggm, che gestisce, tra gli altri, gli scali di Anversa, Marsiglia, Le Havre e Salonicco. Hanno creato scalpore, poi, l’acquisto da parte di Cosco del 24,9% del capitale della Hhl, la società che gestisce i terminal del porto di Amburgo, e quello del 67% del capitale dell’intera autorità portuale del Pireo ad Atene. In Italia Cosco ha acquisito il 40% del porto di Vado Ligure (il 9,9% invece è di un’altra cinese, Qingdao) e il 50,01% della Piattaforma Logistica Trieste, terminal del porto, tramite la sua controllata Hhl. È stato arginato, invece, il tentativo della Ferretti, posseduta dalla cinese Weichai, di acquisire alcuni terminal del porto di Taranto, strategico in quanto sede di una gran parte della marina militare italiana.

La penetrazione nei porti italiani è necessaria per Pechino perché le linee ferroviarie balcaniche, che congiungono il porto del Pireo con il resto d’Europa, sono obsolete e inadeguate al trasporto delle merci. La paura del governo Meloni e degli alleati Nato è che la Cina usi queste infrastrutture civili come testa di ponte per uno spionaggio militare e di tecnologia occidentale. Timori aumentati dal fatto che la Shanghai Zpmc è il principale fornitore di gru utilizzate nei più importanti porti europei, come Rotterdam, Valencia, Amburgo e Savona. Secondo un’inchiesta del Wall Street Journal, le gru potrebbero, con la loro tecnologia, raccogliere dati sull’origine e la destinazione dei container.

Gli investimenti cinesi nel resto del mondo

La Cina, oltre che nei porti europei, tra il 2000 e il 2021 ha investito, secondo uno studio statunitense, oltre 30 miliardi di dollari in 78 porti di 46 paesi emergenti. Tra i più rilevanti l’investimento da 140 milioni di dollari per acquisire il 20% del terminal portuale di Jedda nel Mar Rosso, la concessione di China Merchants Port del porto di Hambantota in Sri Lanka e del porto pakistano di Gwadar, fondamentali per la Via della Seta marittima. A livello militare, Pechino ha stabilito la sua prima base navale all’estero a Gibuti per la centralità dello stretto di Aden nel passaggio delle merci verso il mercato europeo.

Il presidente Xi Jinping, oltre a investire nelle infrastrutture portuali esistenti, ne sta costruendo anche da zero. In Perù la Cina sta inaugurando il porto di Chancay, che permetterà alle navi portacontainer un risparmio di 30 giorni di navigazione per raggiungere Shanghai dal Sudamerica. Chancay diventerà un gigantesco hub, battente bandiera cinese, nel giardino di casa degli Stati Uniti. Washington non ha gradito e ha avvisato il governo di Lima di “riflettere bene sulle conseguenze di questa scelta”. L’espansionismo marittimo della Cina è seguito con particolare apprensione dagli americani, che dal punto di vista commerciale e militare hanno avuto per oltre 70 anni la leadership marittima. La Cina, da parte sua, ha compreso che per un pieno sviluppo della sua nuova Via della Seta, oltre al controllo dei porti e della logistica, è necessario dotarsi anche di una marina militare all’altezza dell’avversario americano.

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