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25 settembre 2025

Il protezionismo di Trump sta aprendo nuove porte agli scambi. E fa la fortuna della Cina

Il resto del mondo non segue il presidente americano e il surplus commerciale di Pechino ha raggiunto nuovi massimi
Il protezionismo di Trump sta aprendo nuove porte agli scambi. E fa la fortuna della Cina

Tommaso Carboni
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Tommaso Carboni

Trump insulta, il mondo commercia (e la Cina ringrazia). Nonostante i dazi Usa, l’export cinese corre come non mai: surplus da 1.200 miliardi di dollari. Il resto del mondo, tra paura di ritorsioni e fame di hi-tech cinese, non alza vere barriere.

Alle Nazioni Unite è andato in scena il solito Trump, un flusso di invettive e divagazioni bizzarre, con una costante: l’astio per l’immigrazione e le politiche green, accusate di distruggere la civiltà occidentale. Trump ha cavalcato meno, invece, l’altra sua fissazione: la crociata protezionista attraverso i dazi.  C’è da dire una verità: sul tema delle frontiere Trump non è isolato; persino governi progressisti, come quello di Keir Starmer in Inghilterra, impiegano una discreta dose di retorica anti-immigrati. Trump però credeva di guidare anche in materia di commercio. Qui invece lo seguono in pochi.  Con un effetto sorprendente: il suo protezionismo sta aprendo nuove porte agli scambi.

Il surplus cinese da record

Anziché chiudersi, paesi grandi e piccoli si sforzano di aprire i loro mercati, e lo fanno senza coinvolgere gli Usa. Alcuni esempi: il Vietnam si orienta verso Mercosur (Sud America) e Golfo arabo; Regno Unito e India hanno chiuso un accordo di dimensioni storiche; un trilaterale tra Cina, Giappone e Corea del Sud è di nuovo sotto i riflettori; l’Ue rilancia il negoziato con l’India; il Canada torna a trattare con Mercosur. E il mondo, per ora, non segue Trump nemmeno nel suo tentativo di contenere l’export cinese. Nonostante i dazi Usa, il surplus commerciale di Pechino ha toccato quest’anno il record di 1.200 miliardi di dollari.  L’export è ai massimi in Africa, India e Sud est asiatico; tra giugno e agosto le vendite in Europa sono cresciute del 10%. Un anno fa Ue e Usa assorbivano quote simili di merci cinesi; oggi l’Europa importa oltre il 60% in più rispetto agli americani.

C’è un altro dato sorprendente: le vendite extra cinesi non stanno arricchendo i suoi produttori. I profitti sono in calo – spiega Bloomberg – perché le aziende tagliano i prezzi pur di trovare nuovi sbocchi all’estero. Insomma, esportazioni a colpi di dumping. Perché i paesi non si difendono con barriere più alte? C’è molta domanda per l’hi-tech della Cina, così come fanno comodo i suoi investimenti. I governi temono anche rappresaglie in caso di dazi. Ad esempio Trump ha chiesto all’Europa di colpire la Cina con tariffe tra il 50 e il 100% – il prezzo, ha detto Trump, per nuove sanzioni americane contro la Russia. Ma Pechino ha già dato un assaggio delle possibili conseguenze: sta bloccando l’accesso a terre rare e altri metalli strategici di cui si servono le aziende in Europa. Da aprile, scrive il Financial Times, le nuove restrizioni cinesi hanno intrappolato decine di aziende europee in ritardi sulle licenze per le terre rare: oltre 140 richieste, solo un quarto approvato. Tra i settori più colpiti, la Difesa e l’industria automobilistica.

Gli effetti collaterali del protezionismo

Risultato: perdite e catene di approvvigionamento rallentate, soprattutto per materiali chiave come magneti permanenti e terre rare medie e pesanti, indispensabili per auto elettriche, turbine, armi. Le case automobilistiche stanno già affrontando ritardi nella produzione e chiusure diffuse, fa sapere Reuters. Anche i produttori di chip hanno inviato una petizione per ottenere un alleggerimento delle restrizioni. Non ci vuole un indovino: le cose peggiorerebbero ancora se davvero l’Europa seguisse l’America nella battaglia protezionista contro la Cina. La quale non vuole essere ricattata; ma a sua volta si domanda per quanto a lungo potrà scaricare all’estero i suoi squilibri economici interni.

L’economia cinese si regge ancora troppo sugli investimenti e ancora troppo poco sui consumi: così produce surplus enormi che azzerano i profitti in patria e spaventano il resto del mondo. Prende piede sui social, ma anche nei discorsi tra politici, il termine ‘involuzione’ (in mandarino neijuan) che significa ‘concorrenza interna senza freni’. La Cina, per farsi un’idea, ha oltre 100 marchi di auto elettriche che si fanno la guerra per ogni briciolo di mercato. Questo obbliga la manifattura a innovare, ma genera anche guerre di prezzi, perdite, debiti. E a volte bizzarre economie di riciclo: pannelli solari così economici da finire nei giardini al posto delle staccionate di legno. 

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