Sempre elegante, con capelli e barba curati, occhiali impeccabili (ovviamente), Leonardo Maria Del Vecchio presta grande attenzione all’immagine, senza però trascurare la sostanza. Nonostante la giovane età, dimostra una maturità manageriale sorprendente: riflessivo, mai impulsivo, unisce passione e strategia, come dimostrano le acquisizioni di Acqua e Terme Fiuggi e Leone Film Group. È senza dubbio una delle personalità più influenti della sua generazione, incarnando lo spirito degli under 30 di Forbes: coraggiosi, veloci e appassionati. Pur disponendo di risorse importanti, sente una forte responsabilità e affronta ogni investimento con oculatezza. Ecco cosa ci ha raccontato.
Alla vigilia dei 30 anni, hai già sulle spalle una grande responsabilità. Avresti potuto seguire un percorso più semplice, invece hai scelto l’imprenditoria. Cosa ti ha spinto a farlo?
Grazie per aver usato la parola ‘scelta’. È davvero azzeccata. Al di là del mio passato, della mia famiglia e di mio padre, nessuno mi ha mai obbligato a fare qualcosa che non volessi. Dedico il mio tempo a ciò che mi appassiona, e il mio lavoro mi dà soddisfazione. Ovviamente ci sono giorni buoni e altri meno, ma la responsabilità è parte del percorso. Come dicono gli inglesi: ‘No pressure, no diamonds’.
Con il tuo family office investi in settori molto diversi tra loro, dall’ospitalità al grafene. Cosa ti ha spinto a questa diversificazione?
Dopo oltre dieci anni di lavoro appassionato e risultati concreti all’interno dell’azienda, continuo a dedicare quotidianamente il mio impegno con serietà e responsabilità verso EssilorLuxottica, consapevole del significato e del peso del cognome che porto, simbolo di una storia che ha segnato l’Italia. È proprio nel solco di questa eredità che ho scelto di affiancare al mio ruolo principale un percorso imprenditoriale personale. Non come alternativa, ma come espressione complementare della mia visione e delle mie competenze. Desidero che il mio nome, Leonardo Maria, sia riconosciuto non solo per ciò che rappresenta, ma anche per ciò che costruisce nel presente: con coerenza, rispetto e ambizione. Amo l’Italia e la sua varietà, ed è questa ricchezza a guidare ogni mia scelta di investimento. Il filo conduttore? Il made in Italy. Non si tratta solo di un’etichetta, ma di un approccio culturale e imprenditoriale che valorizza il nostro saper fare, unendo tradizione, innovazione e valorizzazione del territorio. Il real estate è un asset strategico: non si tratta solo di acquistare e riqualificare immobili, ma di dar loro nuova vita attraverso progetti che rispettano e amplificano la bellezza e la funzionalità degli spazi. Poi ci sono i brand iconici, come Acqua Fiuggi, simbolo del benessere e della tradizione italiana, e Leone Film Group, che porta la nostra creatività nel mondo dell’intrattenimento e della produzione cinematografica. L’innovazione è l’altro grande pilastro della nostra visione. Con EsaNanoTech stiamo lavorando sul grafene, un materiale rivoluzionario che potrebbe cambiare interi settori, dalla tecnologia ai materiali avanzati. Il nostro modello di business si basa sulla creazione di sinergie tra le società in cui investiamo: ogni azienda che entra nel nostro ecosistema porta valore e, a sua volta, ne riceve. Crediamo fortemente che il successo non sia mai frutto di un percorso solitario, ed è per questo che il nostro approccio è improntato alla collaborazione e alla contaminazione tra competenze. Io e Marco Talarico, con cui condivido questa visione, abbiamo costruito in poco più di due anni un team di oltre 20 professionisti. Oggi gestiamo un family office con un portafoglio di investimenti diversificato, con una strategia orientata alla crescita sostenibile e alla creazione di valore nel lungo termine. I risultati ci danno ragione: il rendimento del nostro portafoglio è già al 19% rispetto alle somme investite. Non è un punto d’arrivo, ma una conferma che il made in Italy, se ben gestito, è ancora un asset straordinario su cui puntare.
Qual è questa filosofia?
Non conta quanto un settore sia tradizionale o innovativo, l’importante è svilupparlo all’italiana. Gli italiani hanno sempre avuto successo quando sono rimasti fedeli a sé stessi. Dobbiamo conoscere le altre culture, viaggiare e apprendere, ma senza perdere la nostra identità. Le aziende americane, per esempio, sono enormi, ma spesso ingessate. Noi, invece, siamo più dinamici e flessibili. Anche EssilorLuxottica, pur essendo un colosso, mantiene una struttura snella: dal ceo allo store manager ci sono solo sei livelli gerarchici.
Creare grandi aziende familiari, quindi, è la chiave del successo?
Esattamente. Se guardiamo ai leader globali, vediamo imprenditori come Zuckerberg per Meta, Arnault per Lvmh, o i fondatori di L’Oréal e Santander. Tutti hanno costruito aziende con un forte dna e una grande legacy.
A cosa hai dovuto rinunciare per questo impegno?
Spensieratezza, tempo e valori affettivi.
Oltre all’italianità, per un imprenditore quanto conta la creatività?
Gli estremi non sono mai la risposta. Bisogna essere creativi e veloci, ma sempre con una visione chiara. Il percorso può essere flessibile, ma l’obiettivo deve essere definito. E, se possibile, bisogna anche divertirsi lungo il cammino.
Che rapporto hai con i tuoi manager?
L’eredità più grande che mio padre mi ha lasciato non sono le risorse finanziarie, ma il gruppo di manager con cui mi ha permesso di continuare a imparare e di seguire i suoi valori anche senza di lui. Credo fermamente che le persone con cui lavoro quotidianamente mi insegnino qualcosa. Li conosco da più di dieci anni, perché sin da piccolo amavo passeggiare negli uffici con mio padre, osservando e imparando. Sono sempre stati vicini a me e all’azienda, non solo per motivi professionali, ma per la passione autentica che dimostrano in ogni occasione. Questo è uno dei principali fattori del nostro successo e dei grandi risultati che continuiamo a ottenere, anche senza il fondatore. Lui, però, ha saputo trasmettere a me e ai manager valori fondamentali che ci guidano ancora oggi.
Tuo padre ti ha lasciato tanto. Qual è l’eredità più significativa?
Il nome, più ancora del cognome. È una responsabilità importante.
Probabilmente ti ha voluto dare un destino con il nome, come dicevano i latini. Ma torniamo alle aziende, precisamente ad Acqua Fiuggi. Quali sono i tuoi piani per il marchio?
La scelta di investire, in questo caso, è stata dettata anche dal cuore. Forse non tutti sanno che mio padre beveva solo Acqua Fiuggi. Quando mi è stata proposta questa opportunità, ho visto non solo un brand con 726 anni di storia, l’acqua dei Papi e di Michelangelo, ma mi sono anche chiesto: com’è possibile che un marchio così iconico sia stato dimenticato? Mi è sembrata una doppia sfida: da un lato personale, dall’altro un’opportunità per ridare lustro a un prodotto e a una storia straordinari. È un’acqua con proprietà uniche, che svelerò quando saranno certificate. Il mercato nordamericano e arabo saranno strategici per la sua espansione, anche se la nostra capacità produttiva è limitata a oggi a circa 80 milioni di litri. Finora non siamo mai arrivati a sfruttare appieno questo potenziale, ma il nostro obiettivo è massimizzarlo, sempre mantenendoci nel segmento del lusso. Inoltre, vogliamo spostarci sempre più verso il vetro, con formati sofisticati e distintivi, e puntare sulla distribuzione nel settore Ho.Re.Ca, avendo significativamente ampliato la gamma formati per migliorare l’esperienza del consumatore.
Nel portafoglio diversificato dei tuoi investimenti, c’è anche la Leone Film. Sarà una bella sfida con i colossi della produzione e con le nuove piattaforme.
Leone Film, come Acqua Fiuggi, ha una storia unica. Sergio Leone ha creato un genere cinematografico con Ennio Morricone, e merita di tornare agli antichi splendori. Il cinema non è morto e i dati lo dimostrano: il nostro ultimo film ha incassato 10 milioni di euro in tre settimane, con l’obiettivo di arrivare a 15. Vogliamo offrire alle nuove generazioni un’alternativa alla vita digitale, riportandole nelle sale.
Twiga è un altro brand iconico. Qual è la tua visione per il settore dell’intrattenimento e della ristorazione?
Twiga ha 30 anni di storia ed è tra i marchi più riconosciuti in Europa nell’intrattenimento. Dopo anni da cliente, ho visto il suo potenziale. L’obiettivo è creare sinergie con i miei brand di fine dining e che operano nel settore hospitality, portando innovazione e qualità nel food. Stiamo già implementando questo modello in Italia e all’estero, a Montecarlo, Forte dei Marmi e Porto Cervo.
Quali sono le tue aspettative nel mercato della ristorazione e come pensi di fare la differenza rispetto alla concorrenza?
Ho fondato la Triple Sea Food con i marchi di Vesta, Casa Fiori Chiari e Ciumbia. All’inizio l’ho fatto quasi per gioco, specialmente Vesta. Volevo creare un posto dove poter andare a cena ma sentirmi a casa nello stesso tempo. Devo dire con onestà che all’inizio l’ho fatto più per me che per business. Poi alla fine, come tutte le cose che si fanno per passione, ho scoperto che funzionava. Il Twiga non solo è un brand a sé stante, ma ha anche location nelle quali le sinergie con i miei brand del fine dining possono entrare e aggiungere la cura, l’attenzione e l’innovazione sul food, nonché il nostro modo di considerare il cliente come un ospite. Un matching che adotteremo in Italia ma che porteremo anche all’estero: per esempio al Twiga di Montecarlo tutta la parte dining sarà a cura di Vesta, così come per il Twiga di Forte dei Marmi, mentre il Twiga di Porto Cervo (perché il Billionaire si chiamerà Twiga) avrà Casa Fiori Chiari al piano zero, in mezzo il vecchio Billionaire, che verrà completamente ristrutturato e diventerà Twiga, e sopra ci sarà Vesta. Quindi un’integrazione al 100% di persone, di brand e di location, con moltissime sinergie. È un’ottima soluzione perché, se avessi dovuto trovare sei-sette location per un progetto del genere, prima di tutto non ce l’avrei fatta in un anno e poi avrei dovuto investire molto di più.
Come concili tutto questo con il tuo ruolo in EssilorLuxottica?
Dedico l’80% del mio tempo a EssilorLuxottica. Lavoro in azienda dalle 9 alle 18, poi passo al family office fino a quando serve. Amo quello che faccio.
E poi c’è il marchio Ray-Ban.
Il marchio Ray-Ban rappresenta l’ultima grande sfida che mi è stata proposta e la sto affrontando con enorme onore e responsabilità. È il gioiello della corona e, probabilmente, il più grande affare che mio padre abbia mai fatto. Sicuramente il primo grande affare. Se poi parliamo delle operazioni successive, alcune sono state ancora più imponenti e ci hanno permesso di giocare su un altro livello. Tuttavia, Ray-Ban ha un’iconicità e una storia uniche, impareggiabili, specialmente per chi, come me, ama il cinema. Ray-Ban ha lasciato un segno indelebile nella storia del cinema: sugli occhi di chi ha cambiato il mondo, in piccolo o in grande, c’è sempre stato un paio di occhiali Ray-Ban.
Usi spesso la parola responsabilità. Che tipo di responsabilità sociale ti senti addosso?
La mia è una scelta: potrei fare meno, potrei sicuramente fare molto meglio, oppure potrei fare ancora di più. Ho deciso di andare contro gli stereotipi, di non accettare le etichette e di non fermarmi alla copertina di un libro. Non sopporto la solita cantilena italiana sulla fuga dei cervelli, su come farli tornare, su chi non investe in Italia e su chi dà sempre la colpa alla burocrazia, alla politica o alle tasse. A mio avviso, il vero problema è che la gente non ci crede abbastanza.
Secondo te il made in Italy è sottovalutato proprio dagli italiani?
Credo che il made in Italy sia riconosciuto a livello globale come sinonimo di qualità. Basta pensare che l’80% della produzione dei marchi di lusso come Lvmh e Kering avviene in Italia. Tuttavia, come dicevo prima, spesso restiamo dietro le quinte, relegati a un ruolo secondario. Solo pochi imprenditori sono riusciti a trasformare l’eccellenza produttiva italiana in brand globali riconoscibili. Inoltre, le dimensioni delle nostre aziende sono spesso troppo piccole per competere su scala mondiale. Nella storia c’è stato solo un caso in cui un’azienda italiana è riuscita a diventare leader globale.
E scommetto che quella persona l’hai conosciuta molto bene…
(Sorride) Esatto. E ha dimostrato che si può fare. È possibile diventare leader mondiali o, quantomeno, costruire un’azienda con una reputazione e una dimensione di rilievo, anche operando in un settore di nicchia. Basta guardare al mondo del vino o dell’automobilismo.
Nel tuo portafoglio di investimenti, però, il vino manca…
Monitoriamo costantemente il mercato ma credo ci penserò più in là, quando avrò più tempo e potrò vivere in Toscana.
Oggi si investe molto in tecnologia, come l’intelligenza artificiale e la blockchain. Ci hai mai pensato?
Sono settori affascinanti, ma richiedono investimenti enormi in infrastrutture come server farm, chip e manutenzione. Certo, chi ha risorse come Elon Musk può pensare di costruire una propria azienda di intelligenza artificiale, ma la vera domanda è: come viene utilizzata? L’IA diventerà sempre più una piattaforma aperta e le aziende dovranno saperne sfruttare i vantaggi. Questo non significa necessariamente tagli al personale, ma piuttosto un cambiamento nei ruoli: i lavori più semplici saranno automatizzati, mentre il personale dovrà evolversi. Il valore umano resterà centrale, perché nessuna tecnologia può sostituire la creatività, l’etica e la capacità di prendere decisioni consapevoli.
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