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Due o tre cose sul trionfo del Movimento 5 stelle al sud

Un manifesto del M5S in vista delle elezioni del 4 marzo.

L’Italia spaccata in due, di nuovo. Come sempre, in realtà. La storia del Paese si è sempre giocata lungo faglie politiche e territoriali vistosissime, ma mai come il 4 marzo si è sentita l’eco delle grandi divisioni epocali: quella del 1946 con il referendum tra monarchia e repubblica, quella del 1974 con il referendum sul divorzio, o quella delle elezioni nazionali del 2001, con il nord e il sud in mano a Berlusconi e l’Italia centrale saldamente ulivista. Solo che questa volta il Nord non se l’è preso Berlusconi ma la Lega, mentre il sud e le isole sono una marea gialla Cinque stelle. Come è successo, e cosa vuole dire? Intanto, è successo con percentuali clamorose: mediamente oltre il 40% dei voti in tutto il Meridione vanno a Grillo & co., con punte del 48% in Campania e Sicilia. Il 54% a Napoli, roccaforte per vent’anni del Pd, ora è passato al 14%. Stessa cosa a Bari, Palermo, Cagliari. Piaccia o non piaccia, la questione meridionale è il fardello che ha lasciato il segno su queste elezioni.

Se il Movimento non avesse sovrastato tutta la sinistra moderata e pure quel che resta di Forza Italia al sud, a quest’ora staremmo parlando d’altro: di un Gentiloni bis, probabilmente, o di un altro compromesso tra centrodestra e centrosinistra con una legge elettorale da rifare, chissà, e non dell’opzione – surreale, remota o concreta: staremo a vedere – di un governo centrosinistra-Cinque stelle, con l’appoggio dei transfughi del Pd. Il punto è che al centro-nord le elezioni sono andate più o meno come nel 2013, con un vero quanto caotico tripolarismo. Al sud, c’è stato un solo vincitore incontrastato. Che ora, seppur non potendo governare, condiziona il resto del Paese.

Però attenzione: se il sud avesse votato in sintonia con le altre regioni, oggi avremmo un Salvini premier, alla guida di un centrodestra sempre più sulla strada del lepenismo. E invece il sud ha funzionato da katechon, da potere che frena, impedendo una compiuta “modernizzazione” in senso xenofobo dell’Italia. Situazione che ci ricorda quella delle elezioni del 1976, quando la vittoria della Dc nel Mezzogiorno impedì la formazione di una maggioranza comunista in Italia, in un anno in cui il Pci prese il suo record di voti, eppure si arrese al compromesso storico coi democristiani (all’origine, secondo molti storici, del declino economico attuale). Altri partiti e altre epoche, certo; e non vogliamo discutere di ipotesi alternative. Fatto sta che, senza il sud, l’Italia di oggi come quella di ieri non riesce mai a prendere una direzione chiara, che sia progressista o reazionaria.

Chiamatela, se volete, la “Maledizione di Franceschiello”, giusto per far contenti i neoborbonici di sinistra. Che hanno trovato, ad esempio, nello scrittore Pino Aprile il loro novello Karl Marx, trasformando cahiers de doléances come Terroni (Edizioni Piemme) in inaspettati bestseller. È proprio Aprile, in un’intervista diventata virale, a farsi portavoce di un certo tipo di vittimismo rancoroso, paragonando l’Expo di Milano ai furti sabaudi, la malagestione del Mose all’efficienza dei Borboni: un atteggiamento rivendicazionista fuori tempo massimo che, tradotto politicamente, vuole dire “paghi il nord”. Il punto è che, siccome il nord non vorrà e non potrà pagare, si rischia sul serio la secessione (cosa che tra l’altro veniva auspicata senza troppi giri da parole da Beppe Grillo: 10 anni fa ospitava storici revisionisti sul suo blog un giorno sì e l’altro pure, e ancora nel 2014 chiamava l’Italia “un’arlecchinata di popoli”. E Salvini gli dava ragione).

Lo sfondamento del M5S al sud – clamoroso per la sua portata, prevedibile nella sua esattezza – rischia di dare il via libera a tutto un campionario di semplificazioni pericolose. Se Jacopo Iacoboni de La Stampa, ad esempio, twitta una frase non proprio delicatissima: “Torino città, notevole calo del M5S, a Milano il Pd va bene. Sono le due città con il tessuto intellettuale e economico più avanzato d’Italia”, Vittorio Zucconi ci va giù ancora più malizioso: “Voti M5S nei collegi napoletani più a rischio Camorra: Barra 65,3%; Scampia 65,2%; Pianura 61,0%; Secondigliano 60,3%”. E c’è da dire che qualcosa di vero, quei tweet, dicono: ma la verità non basta, perché rischia di accecare e impedire di vedere lo scenario più vasto; di non farci scendere in profondità.

Strade di Napoli.

Provando a dare una lettura non superficiale e soprattutto non razzista del voto meridionale, la nozione da cui partire è incontrovertibile: il Movimento 5 stelle ha preso il posto che per settant’anni è stato prima dei monarchici (nel senso di quelli che avrebbero appoggiato il ritorno dei Savoia), poi della Dc, e infine di Berlusconi. Nel conquistare la sua posizione dominante il Movimento ha fatto frattaglie di tutto ciò che gli stava intorno, di qualunque categoria demografica: destra e sinistra; atei e cattolici; giovani e anziani; periferie e centro (pur con una maggiore resistenza, lì, dei partiti tradizionali). Questo successo uniforme ci spiega come la scommessa di Grillo di puntare su Luigi Di Maio, questo figurino un po’ robotico ma anche strepitoso (nella sua capacità di non sbilanciarsi mai su nulla, di non tradire emozioni o slanci di erudizione che potessero turbare l’elettorato) sia stata una scommessa vinta. Un vero profeta dalla carnagione orientale, Di Maio, capace di partire da un Meridione stanco e stufo e nel giro di cinque anni conquistare un terzo del voto degli italiani: mica roba da poco.

Ci si può scervellare quanto si vuole sui flussi di voto e sulle motivazioni più intime degli elettori grillini, ma sarebbe controproducente attribuire quel voto solo a manipolazione, ignoranza, una generica stupidità o al sogno di una nuova Cassa del Mezzogiorno, di un nuovo assistenzialismo generalizzato sotto la dicitura “reddito di cittadinanza” e non – anche o soprattutto – a una domanda di disperato cambiamento. La disoccupazione giovanile raggiunge cifre vertiginose proprio nei collegi vinti da Grillo, e altri fattori di malcontento sono una povertà assoluta e relativa mai vista negli ultimi vent’anni, la sensazione diffusa che qualunque lavoro (quando c’è) venga pagato troppo poco, un trasporto pubblico inesistente, una sanità letteralmente a pezzi, e la percezione che tutti quelli “venuti prima” abbiano fallito. Un cambiamento a qualunque costo: anche più alto di quello pagato finora, perché no.

Del resto, per smontare certe rozzezze interpretative basta poco, e le armi ce le forniscono proprio i grillini: ricordate quando i vignettisti di destra e le bacheche dei fanatici si scatenarono contro gli italiani babbei che, dopo “gli 80 euro di Renzi”, avevano premiato il Pd con il 40%? Ecco, se non era un’interpretazione equilibrata allora, non lo può essere nemmeno oggi a parti invertite. Più in generale, l’idea del “patto dei produttori” che solletica già qualche liberal del Pd e di Forza Italia nascerebbe già vecchio e non ha mai funzionato (né durante il Risorgimento, né col fascismo, né si è dimostrato credibile dopo Tangentopoli nella versione “Padania contro Roma”). È basato su una visione naïf dei settentrionali produttivi e innovativi, che la realtà del declino italiano ha smentito.

Forse sarebbe il caso di non leggere il voto esclusivamente con la lente dell’etica individuale, né solo con quella dell’utilitarismo più spinto, ma cercando di alternare Adam Smith a Nanni Moretti, perché i confini politici del voto sono più incerti di quanto si creda: si prenda, ad esempio, la Sicilia, con un cappotto di 28 collegi per il Movimento a 0, che riecheggia il famoso 60-0 a favore della Casa delle libertà del 2001. Ci sarebbe da chiedersi che ne è stato del voto clientelare e paramafioso: improvvisamente cancellato dall’onestà e dall’emancipazione? Difficile crederlo. Forse non bisogna neppure farsi ossessionare troppo da un certo determinismo geografico: è possibile che molti di quelli che al nord hanno votato Lega lo abbiano fatto con motivazioni “grilline” e, al contrario, molti al sud abbiano votato M5S con motivazioni “padane”. La cosa divertente è che due partiti che condividono su per giù più punti in comune di quanti ne condividano Forza Italia e Pd, e al loro interno hanno confini ideologici così incerti, abbiano dato vita a una spaccatura nazionale che presuppone politiche radicalmente diverse, e inconciliabili.

Proprio perché vogliamo prendere sul serio chi ha votato questo inquietante esperimento distopico, però, dovremmo anche trovare il modo di comunicargli un bel po’ di cose che non vanno. Per esempio, come la flat tax e il reddito di cittadinanza sono incompatibili; che un reddito di cittadinanza senza taglio della spesa – o quantomeno senza un aumento della produttività e dell’efficienza del settore pubblico – è una chimera. Il punto è che nei Paesi sviluppati, inclusa l’Italia e incluso anche questo disastrato Meridione, la politica è un bilanciamento di interessi fragilissimi. Neppure al sud – che i neoborbonici alle vongole continuano a dipingere come una massa di vittime di 150 anni di oppressione meridionale – c’è un 99% di subalterni contro un 1% di oppressori: ci sono tante piccole e complesse contrapposizioni quotidiane, fatte di privilegi castali, baronati accademici, uffici pubblici intoccabili e altri settori, come il turismo o l’artigianato, più liberalizzati dei taxi di Maracaibo. E per ora il M5S si è pappato tutto: vedremo come potrà digerire.

Aggiungo che no, amici corbyniani e “altereuropeisti”: non si può illudere il nuovo populismo di poter passare a sinistra senza scontentare nessuno, tassando Facebook, mettendo dazi mostruosi su Amazon e mandando il maresciallo Rocca alle Cayman. Non ci sarebbero comunque le coperture. A meno che non si vogliano fare proprie le suggestioni della fantapolitica recente, e pensare a un nuovo piano per lo sviluppo dei Paesi del Nord Africa per rilanciare le nostre imprese, svendere un bel po’ di asset alla Cina o facendo una quadruplice intesa con una Gran Bretagna de-europeizzata, con la Russia di Putin e l’America di Trump. Ma non voliamo troppo con la fantasia.

Per ora verrebbe da limitarci a pensare che ciò che resta della socialdemocrazia europea, insieme ai sindacati più responsabili, qualche aggancio nei mass media continentali e pure qualche disertore dei partiti populisti farebbero bene a organizzare una Quinta Internazionale, o qualcosa del genere, e stendere un New Deal per sé stessi e per gli altri. Perché se è vero che non tutti gli Stati occidentali sono in declino; se è vero che la sinistra moderata in Francia, in Inghilterra e in Germania sembra essere messa meglio della nostra (e quei Paesi ci taglieranno fuori da un sacco di negoziazioni), non si può essere preda dell’ansia ogni sei mesi per l’ondata di populismo xenofobo che prende piede da qualche parte.

In fondo, non bisogna dimenticare che l’Italia è un ecosistema politico molto malleabile e con barriere all’ingresso molto basse (al contrario di Gran Bretagna e Stati Uniti, molto più legate a barriere ereditarie o di classe). Il Pd nel 2014 era al 40% e il M5S al 21%. Non è detto che il populismo, se messo alla prova e soprattutto se isolato da un rinnovato patto per lo sviluppo tra le forze europee, non possa rivelarsi un bubbone più fragile di quanto crediamo. L’importante è capire che qualunque piano sarà destinato a saltare se non terrà conto anche del sud. E se anche la marea gialla dovesse calare, chissà cosa potrebbe venire dopo.

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