di Tommaso Carboni
Quanto conta essere tutti d’accordo sulle cause del riscaldamento globale? Tra gli scienziati il consenso è praticamente unanime. Esaminando più di 50mila articoli accademici pubblicati tra il 1991 e il 2015, nel 99,94% dei casi gli autori hanno attribuito la colpa ai combustibili fossili. Cioè al nostro modello produttivo. Il ventesimo secolo non ha avuto eguali nella storia dell’umanità. La popolazione mondiale è raddoppiata due volte, il reddito più di quattro e le emissioni di anidride carbonica causate dalle nostre attività sono cresciute di conseguenza. Secondo alcuni studi, oggi sono circa 150 volte più alte che all’inizio della seconda rivoluzione industriale.
In parte, la sfida del ventunesimo secolo sarà proprio una gigantesca (e auspicabilmente rapida) inversione a U: rimpiazzare tutto ciò che brucia gas, carbone, petrolio, e farlo riuscendo comunque ad espandere l’economia per soddisfare i bisogni di una popolazione che continua a crescere. Il consenso politico, almeno a parole, si sta formando. A New York, la scorsa settimana, durante l’assemblea generale delle nazioni unite, 66 paesi, 93 aziende e oltre 100 città hanno promesso di raggiungere zero emissioni nette di CO2 entro il 2050. In linea quindi con gli accordi sul clima di Parigi. L’obiettivo è mantenere la temperatura globale “ben al di sotto” di 2 gradi sopra il livello preindustriale. Per far questo, altri 59 paesi hanno detto che sveleranno il prossimo anno piani per tagli più radicali.
È mancato però l’impegno dei tre maggiori responsabili di CO2 al mondo, Stati Uniti, Cina e India, che non hanno fissato l’obiettivo di zero emissioni nette entro il 2050. Bisogna accelerare quindi. L’attivista Greta Thunberg e altri sei milioni di persone scese in piazza in tutto il mondo negli scorsi weekend ce lo hanno ricordato. Ma niente illustra meglio la discrepanza tra fatti e parole, tra le ragioni (almeno nel breve periodo) del profitto, della stabilità economica e politica e quelle della tutela dell’ambiente, di un altro incontro avvenuto sempre a New York, a poche strade dal palazzo di Vetro dell’Onu, quasi in contemporanea al discorso dell’attivista svedese.
In una sala della Morgan Library, come ha scritto il Financial Times, i dirigenti di 13 delle maggiori compagnie petrolifere si sono ritrovati a parlare del futuro del loro settore. ExxonMobil, Chevron, BP, Saudi Aramco, Total, Royal Dutch Shell erano tutte presenti e hanno tutte detto di essere partner nella lotta al cambiamento climatico (tra l’altro, molte di loro hanno anche approvato gli accordi di Parigi). Finora, secondo una ricerca di CDP, l’ong che monitora l’impatto ambientale delle grandi corporation, il 71% delle emissioni di gas serra tra il 1988 e il 2015 è derivato dai combustibili fossili venduti dalle 100 principali società d’energia. Le tredici major presenti al summit hanno promesso di limitare le emissioni di metano e di sostenere la ricerca di nuove tecnologie, come la cattura e lo stoccaggio di anidride carbonica e altri gas serra. Aggiungendo, però, che continueranno a finanziare nuovi progetti di estrazione.
La brutale verità è che la domanda globale di petrolio e gas, almeno secondo le previsioni del settore, è destinata a crescere del 13% entro il 2030, e tutte le grandi società petrolifere espanderanno la loro produzione. Continuano a spendere in rinnovabili, ma la loro quota sul totale degli investimenti è in calo. Nel 2025, secondo un’indagine dell’Economist, ExxonMobil prevede di pompare il 25% in più di gas e petrolio rispetto al 2017. Non è una questione di amministratori delegati diabolicamente avidi. Al momento, il ritorno finanziario del petrolio è più alto di quello delle rinnovabili. E da quegli utili, per esempio, dipendono anche gli investimenti di milioni di pensionati e altri piccoli risparmiatori. Come azionisti hanno il diritto di pretendere dai manager il massimo dei profitti. Delle 20 società che pagano i dividendi più alti in Europa e America, quattro sono major petrolifere.
È difficile che le cose cambino se profitti e domanda restano così forti. Ciò potrebbe accadere se le emissioni di anidride carbonica venissero sottoposte a regole più stringenti; per esempio, la “carbon tax”, presente in diversi paesi europei, manca completamente a livello federale negli Stati Uniti. Un’indagine citata dall’Economist e diffusa da Principles for Responsible Investment (PRI), una rete internazionale che investe in economia sostenibile, si aspetta un cambio di passo a partire dal 2025. Il report parla di modifiche dei regolamenti sul clima “improvvise e dirompenti”, quando i leader politici si accorgeranno dell’urgenza della crisi ambientale. Se davvero il mondo provasse a dimezzare le emissioni nette di CO2 entro il 2030, il think-tank Carbon Tracker calcola che andrebbe in fumo (letteralmente) più della metà dei soldi che oggi le grandi compagnie energetiche vogliono spendere in nuovi campi petroliferi. Le implicazioni per la geopolitica sarebbero enormi.
In Medio Oriente il petrolio fa metà del Pil dell’Arabia Saudita, che è anche il più grande esportatore al mondo. Dopo l’aggressione alle sue piattaforme estrattive (missili arrivati dall’Iran a detta di Stati Uniti, Germania, Inghilterra e Francia), la cosa più sorprendente è la rapidità con cui ha ripristinato la produzione. In poco più di una settimana, riporta il Financial Times, la macchina è tornata praticamente a regime. Otto milioni di barili, invece dei nove e mezzo di prima dell’attacco. È bastato questo per calmare i mercati: a 62 dollari al barile, il prezzo è rientrato alla normalità.
Insomma, il petrolio continua a scorrere (d’altronde l’80% dell’energia globale dipende da combustibili fossili) e la temperatura media della Terra a salire. Le conseguenze? Gli scienziati parlano di eventi climatici sempre più estremi. Siccità, incendi, uragani. Ma anche eccezionali ondate di freddo: negli Usa, come è successo quest’anno, inverni così gelidi che a Chicago la temperatura potrà scendere più in basso di alcune zone di Marte.
Gli americani ormai sembrano rendersene conto: il 59%, secondo un sondaggio del Pew Research Center, è convinto che il cambiamento climatico rappresenti una “grossa minaccia”. I democratici (84%) ci credono di più, e infatti i loro candidati alle presidenziali – da Biden a Elizabeth Warren e Bernie Sanders – hanno tutti un piano per abbattere le emissioni. Molto scettici i repubblicani, con appena il 17% che considera il clima un problema reale. C’è però un’enorme differenza generazionale. Per quasi il 60% dei millennial conservatori il deterioramento ambientale esiste e va arginato. Bisogna aspettare che i giovani diano la linea al partito. Ma forse sarà troppo tardi per riparare i danni.
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