Alla fine, in extremis, dal Tribunale di Milano è uscito fuori qualcosa di simile a un accordo. C’è tempo fino al 7 febbraio per mettere a punto un nuovo piano industriale che rilanci l’ex Ilva di Taranto. Ci saranno licenziamenti? È possibile, anche se il governo dice di no. Quello che è sicuro, invece, è che nella nuova formula ci sarà bisogno di parecchi investimenti pubblici. Cosa che non era prevista nel primo contratto, quello firmato a settembre 2018, in cui ArcelorMittal, la multinazionale franco indiana, si impegnava a investire oltre quattro miliardi di euro nell’acciaieria più grande d’Europa. Per bonificarla, ammodernarla, rilanciarla, il tutto senza licenziare praticamente nessuno.
Che cosa è andato storto? In primo luogo, una congiuntura orribile per il mercato dell’acciaio; poi un calvario di intoppi burocratici e legali. I più notevoli: la procura di Taranto che ordina ad ArcerlorMittal di chiudere un altoforno (richiesta per fortuna annullata in sede di appello), e il governo italiano che cancella, con votazione masochista di PD, Renzi e 5Stelle, lo scudo legale che dal 2013, dopo la nazionalizzazione di Ilva, proteggeva i nuovi gestori da sequestri per reati ambientali di responsabilità della passata gestione Riva. I maligni dicono che Mittal non aspettasse altro che l’occasione buona per sfilarsi da un contratto ormai svantaggioso. Ora bisognerà negoziarne un altro, e si spera che le nuove trattative diano risultati positivi. Ma per molti il “sistema Italia” non ci ha fatto comunque una bella figura, oscillando troppo tra il maldestro e l’apertamente ostile.
L’Economist sintetizza brutale: “La reputazione malconcia dell’Italia con gli investitori stranieri ha subito un altro duro colpo.” Opinioni analoghe sono apparse sulla stampa italiana. “Non solo ArcelorMittal: ecco perché le multinazionali disinvestono dall’Italia”, ha titolato il Sole 24 Ore. Anche se poi, i dati, se uno li va a leggere, raccontano una storia un pochino più sfaccettata. Secondo l’Istat, il numero di multinazionali in Italia continua a crescere, + 378 nel 2017. In tutto ce ne sono quasi 15000, che danno lavoro a 1,4 milioni di persone (circa l’8% degli occupati nel settore privato), con fatturati in aumento del 6,1 per cento. Altra cosa da tenere d’occhio è l’ammontare di investimenti diretti esteri (IDE). Qui il quadro ha più ombre che luci. Nel 2018 sul nostro territorio sono arrivati 24,3 miliardi di dollari, e l’Italia si è piazzata quindi nettamente dietro i suoi concorrenti europei. Basti pensare che negli ultimi cinque anni lo stock di investimenti diretti esteri sul Pil italiano è stato del 21 per cento. Un paragone col resto d’Europa? Regno Unito 67%, Spagna 46, Francia 30 e Germania 23 per cento. Eppure, a sorpresa, l’interesse degli investitori esteri ultimamente è in crescita. Secondo il Foreign Direct Confidence Index del 2019, abbiamo guadagnato cinque posizioni in due anni. Sempre dietro Regno Unito, Germania e Francia, ma sopra Spagna, Olanda e Svizzera.
Dove sta la verità quindi? Il nostro è davvero un paese così poco accogliente per investimenti esteri e business in generale? Proviamo a chiederlo a qualcuno che di mestiere fa proprio questo: aiutare imprenditori italiani e tante multinazionali (American Express, Facebook, AT&T) a navigare le acque spesso agitate del sistema Italia. Giampiero Zurlo, 36 anni, ha fondato Utopia quando di anni ne aveva 28. Da subito è stata una notevole affermazione. Utopia ha aumentato i ricavi del 376% nel triennio 2014-2016, e negli ultimi due anni il Financial Times l’ha inserita nella sua classifica delle mille aziende innovative che in Europa crescono di più. Ai suoi clienti offre servizi integrati in relazioni istituzionali, lobbying, comunicazione e affari legali.
Incontro Zurlo nel suo ufficio romano. Scorriamo insieme l’ultimo indice sulla competitività dei paesi europei. Un indicatore di oltre 70 voci che misura la capacità di essere attraenti e sostenibili per imprese e residenti. Tutte le regioni italiane risultano sotto la media europea. Chi più e chi meno patisce i soliti problemi che ormai conosciamo bene. Pubblica amministrazione inefficiente, leggi e burocrazia complicate, sistema giudiziario lento e incerto. “A tutto ciò bisogna aggiungere un’altra complicazione”, dice Zurlo. “Oggi, almeno nella mia esperienza, solo una piccola parte della classe politica ha la capacità di dialogare con l’industria. Il risultato è che la politica si chiude in sé stessa, ascolta troppo i tweet della sua base elettorale e troppo poco il parere degli esperti e soprattutto di chi sarà chiamato in concreto ad applicare le norme. È la porta di ingresso al populismo legislativo”.
Zurlo cita quelli che secondo lui sono alcuni casi recenti di questo fenomeno, “tipo le proposte di plastic, sugar e sim tax, nonché l’aumento delle tasse sulle auto aziendali”. C’è da dire, però, che almeno su alcuni punti (sim tax e auto aziendali), il governo sta facendo marcia indietro. Del resto, mi spiega Zurlo, “l’ipotesi di introdurre la sim tax, avrebbe colpito i quasi 45 milioni di italiani che hanno un cellulare. Mentre il solo annuncio dell’aumento della tassa sulle auto aziendali (che rappresentano il 25% del parco auto circolante) ha fatto crollare a zero quel tipo di immatricolazioni in ottobre, novembre e dicembre”.
Sugar e plastic tax invece sono rimaste. A dir la verità sembrano tasse non del tutto strampalate, soprattutto quella sulla plastica che tenta di proteggere l’ambiente, e in generale potrebbero essere considerate un male necessario per bloccare l’aumento dell’Iva. “Certo, ma la tassa sulla plastica colpisce tutte le aziende in modo orizzontale”, continua Zurlo. “La battaglia contro la plastica monouso, non riciclata e non riciclabile, è sacrosanta ma invece di tassare le aziende si dovrebbero premiare comportamenti virtuosi, ad esempio incentivando economicamente il sistema del vuoto a rendere per il vetro”. E in effetti le società di food and beverage non hanno gradito per nulla la mossa del governo. In Italia, Coca Cola ha detto che fermerà tutte le assunzioni e gli investimenti (49 milioni di euro) previsti per il 2020. Destabilizzata anche San Pellegrino (gruppo Nestlé). “Rivedremo i nostri piani di investimento”, fa sapere il management.
Zurlo torna a sfogliare l’indagine sulle performance dei paesi europei. Davanti a noi c’è la mappa dell’Italia. “Un altro grosso problema è che l’autonomia legislativa regionale italiana in alcune materie porta le regioni ad avere leggi diverse tra loro”. Questo è un punto fondamentale, secondo Zurlo, perché è chiaro che la frammentazione delle regole rende gli investimenti più complicati. ”Enjoy e Car2go, ad esempio, devono seguire norme diverse a Milano, Catania, Roma mentre il codice della strada nazionale, che è del 1992, ancora neanche contempla il car sharing. L’effetto è che in alcune città si può andare su preferenziali ed entrare nei centri storici, in altre no. Le multinazionali sono disposte a investire ma vogliono uniformità. Le scoraggia andare in un mercato dove ci sono venti leggi diverse”.
Ok, saremo pure pieni di difetti, ma in Italia le multinazionali continuano a venirci. Tra il 2019 e il 2020, il 31,5% delle controllate estere in Italia pensa di aumentare il livello di attività, il 61,3% di mantenerle stabili e solo il 7,1% di ridurle. “L’Italia è comunque un grandissimo mercato”, sostiene Zurlo. “Le aziende che a volte minacciano il governo di voler andare via dal paese dicono una falsità. L’Italia è un mercato troppo importante, per chiunque. È questo poi che anche quando l’economia è ferma ci fa fare il +0,1 o +0,2%. Il problema è che spesso qui da noi le multinazionali vendono i loro beni, ma non li producono”. È vero: in quasi tutti i settori della nostra economia (dai servizi, alla manifattura, l’industria e il commercio), le società estere contribuiscono molto più alle importazioni che alle esportazioni. Ad esempio, secondo l’Istat, realizzano il 47,7% delle importazioni di merci, contro il 28% di esportazioni. Uno scarto che nel 2016 ha generato un saldo commerciale pari a -38,6 miliardi di euro. Ma è vero anche che le multinazionali investono abbondantemente nella nostra industria, che poi è il principale traino dell’export italiano. Un esempio? “Ce n’è uno bellissimo”, mi dice Zurlo. “Avio Aero, da qualche anno di proprietà di General Electric, che produce e progetta in Italia motori aerei grazie a suoi 4200 dipendenti. Nel suo campo è tra le più importanti aziende al mondo. I suoi componenti sono montati nell’ 80% degli aerei in circolazione”.
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