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Wuhan, la smart city incapace di contenere l’epidemia. Ma con i Big Data in futuro…

Vista aerea della città di Wuhan (Getty Images)

La Cina è leader mondiale nella realizzazione di smart city. Parlano i numeri: nel mondo, un progetto di smart city su due si sviluppa sul territorio cinese (cfr report Deloitte allegato). Nel 2010, il ministero della Scienza e Tecnologia elesse proprio la metropoli di Wuhan, epicentro dell’epidemia coronavirus, come sede pilota del programma di diffusione di città intelligenti.

In questi giorni, Wuhan è un luogo fantasma, nella morsa del virus, fragile come una qualsiasi città: l’aggettivo “smart” assume così una venatura fra il cinico e il sarcastico. Ne abbiamo parlato con Carlo Ratti, nome associato alle smart city, architetto, ingegnere, informatico, fondatore e direttore del MIT Senseable City Lab di Boston, al timone dello Studio Carlo Ratti Associati di Torino. Un inventore seriale (vedi la Copenhagen Wheel inclusa dal Time magazine fra le “Best Inventions of the Year”).

Ratti è la figura carismatica della Biennale di Urbanistica e Architettura di Shenzhen, la versione cinese della Biennale di Venezia, sebbene con i suoi 550mila visitatori ne doppi le presenze. L’edizione di quest’anno, tutt’ora in corso, fa proprio il dibattito internazionale sulle smart city concentrandosi anche sull’impatto dell’intelligenza artificiale. La Cina ambisce ad essere la numero uno pure in questo ambito come dimostra il crescendo di investimenti calcolato intorno agli $11.9 bilioni entro il 2023.

Dati gli accadimenti, alla Biennale di Shenzhen si apriranno spazi di dibattito sull’emergenza coronavirus. Ci si chiede come dovrebbe reagire una smart city a queste emergenze? “Per la chiusura della Biennale, a marzo, insieme a Michele Bonino del Politecnico di Torino stiamo pensando di organizzare un momento di discussione proprio intorno ai modi in cui una smart city può affrontare una situazione di crisi sanitaria” spiega Ratti che è stato in Cina in dicembre spingendosi fino a 350 chilometri da Wuhan, quindi in una fase in cui si erano verificati i primi casi di infezione ma non c’era il minimo sentore dell’incombere dell’epidemia.  “Una delle sfide per i prossimi anni – continua Ratti – sarà quella di trovare nuovi modi per analizzare i Big Data in arrivo dalla cittadinanza – informazioni che possono essere utili tanto per l’urbanista, quanto per gli studiosi di epidemiologia. Ad esempio, in un  recente articolo scientifico, pubblicato su Nature Scientific Reports, abbiamo sviluppato un metodo per predire i contagi di Dengue a Singapore usando gli spostamenti dei telefoni cellulari. La mobilità delle persone infatti è fondamentale per comprendere le dinamiche di trasmissione di molti virus e batteri”.

Per la verità, ci piacerebbe pensare che in una città smart i virus siano intercettati e debellati all’istante. O forse è chiedere l’impossibile? “I fattori in gioco sono moltissimi. Però credo che domani saremo in grado di monitorare meglio non solo l’ambiente fisico di una città ma anche quello biologico. Negli ultimi anni, il nostro laboratorio al MIT di Boston ha collaborato con alcuni colleghi del dipartimento di bioingegneria per studiare un sistema di analisi dei campioni batteriologici che si possono trovare nelle fogne urbane e che ci permettono, ad esempio, di trovare il virus dell’influenza prima che vengano segnalati i primi casi di infezione. Il progetto si chiama Underworlds“.

Sulle perplessità destate dall’anima smart di Wuhan, in ginocchio come una qualsiasi città, Ratti confessa che “del resto, il nostro pianeta rischia di soccombere al cambiamento climatico, indipendentemente dall’uso di nuove tecnologie. Come diceva Melvin Kranzberg: “La tecnologia non è né buona né cattiva; ma neanche neutra”.

Sempre a proposito di città cinesi. Carlo Ratti con Michele Bonino è alla testa del team curatoriale di “Eyes of the City”, la mostra che alla Biennale di Shenzhen affronta (anche) il tema del riconoscimento facciale, sempre più pervasivo nelle città cinesi.  Di fatto, il 2019 è stato un anno cruciale. “Proprio mentre organizzavamo la nostra Biennale su questo argomento – prosegue Ratti – , da San Francisco a Hong Kong la cronaca quotidiana ci raccontava di reazioni sempre più critiche verso la presenza del riconoscimento facciale nelle nostre città. Al contempo, la tecnologia non si ferma, e sono anzi sempre di più le circostanza della vita quotidiana in cui accettiamo di usare la nostra faccia come “chiave” per sbloccare un certo servizio: pensiamo, soltanto per fare un esempio, al nostro smartphone… Il ragionamento che abbiamo sviluppato alla Biennale, insieme a partner come l’università Cooper Union, è quello che sia necessario attuare strumenti di risposta nuovi, basati sul diritto a fare “opt out”. Ecco allora che alla Biennale a Shenzhen abbiamo dotato la mostra di un sistema di riconoscimento facciale: ma abbiamo anche dato la possiblità a tutti i visitatori di fare richiesta di anonimato. I primi risultati sono molto interessanti: i numeri di chi non vuole essere riconosciuto dal sistema sono decisamente più alti di quanto ci aspettassimo. Il modo in cui gestiremo la condivisione e il possesso dei dati urbani – a partire dal database dei volti legato alle reti di riconoscimento facciale – è uno dei temi fondamentali per le città del prossimo decennio. In Cina, ad oggi, c’è poca sensibilità sul tema privacy. La vecchia Europa si trova, invece, in una posizione di avanguardia con il GDPR, che è un ottimo punto di partenza”. E sempre in tema di vecchia Europa vs Cina.  Ratti conosce da vicino il sistema scolastico cinese, ma di una cosa è sicuro: è vero che  la Cina sta investendo enormi risorse nell’istruzione “e i risultati stanno arrivando molto in fretta. Le università occidentali, tra cui anche quelle italiane, hanno però un vantaggio: possono operare in società nelle quali l’atteggiamento critico viene coltivato su una scala decisamente più ampia. Mettere sempre in dubbio tutto è il punto di partenza del progresso scientifico – come ci ricorda tra gli altri Galileo”.

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