Smart Mobility

L’era della condivisione di Daimler e Bmw

Articolo apparso sul numero di Forbes di luglio 2020. Abbonati

La macchina come oggetto, prezioso, da lucidare a cera, da esporre davanti al bar degli aperitivi o da parcheggiare strombazzando sotto casa delle ragazze è un costume che abbiamo nel nostro dna. C’è poco da discutere. E l’operazione di trasformare questo oggetto di culto, di status e di appartenenza in un servizio, in qualcosa di immateriale, è uno dei passaggi più difficili che si appresta a compiere la nostra società.

Anni fa, un amico svedese che lavora nel ministero dei Trasporti a Stoccolma mi mise la mano sulla spalla e, guardando la mia macchina parcheggiata e multata davanti casa, mi disse: “My friend, ho una ricerca realizzata dal nostro governo da cui si evince che le auto di proprietà passano l’80% della loro vita inattive e parcheggiate in strada”. Fu come una puntura di insetto. “Rolph, ci penserò”, risposi. In quei giorni stavo scrivendo un libro sull’internet of things e mentre scendeva la notte a Milano, guardavo negli occhi un manager di Accenture che stavo intervistando e feci fatica a seguire il suo ragionamento: “Dobbiamo compiere questo passaggio disruptive nella nostra era digitale e dare ai dipendenti di aziende e ai cittadini l’auto as a service”.

Poi arrivò il giorno della conferenza stampa in cui il colosso tedesco Daimler ci volle provare per davvero: presentò le sue Smart in sharing grazie a un accordo con il Comune di Milano, apertissimo alla politica dei mezzi as a service sparse in città a migliaia, e lanciò prima Smart elettrica, sempre in sharing, a Roma. Scaricata l’app, eseguita l’iscrizione con carta di credito e scansionata la patente, guardai la piantina di Milano e trovai decine e decine di puntini blu. Erano le auto “non mie” – o mie per qualche minuto – che mi aspettavano.

Quando la macchina si aprì con il codice inserito nell’applicazione restai frastornato. Entrai, cercai la chiave, misi in moto, feci il mio giro, arrivai a destinazione. In tutto pagai 4 euro e nel momento in cui lasciai la macchina e la richiusi, mi sorse un dubbio. Ma se qualcuno, dopo di me, la riapre e continua la corsa, la pago io? Ma se non mi porto via la chiave come farò la prossima volta? Perplessità di un utente che per decenni, serrate ben bene le portiere, si è messo le sue chiavi in tasca, per poi ritrovare la sua vettura nello stesso punto, magari con un foglietto bianco sotto il tergicristallo.

In seguito, mi ritrovai a Berlino per una grande fiera tech, la Ifa. Pioveva a dirotto e mi toccava raggiungere un posto a quattro chilometri di distanza, dove si teneva l’evento. Mi ricordai dell’app di sharing: funzionerà? Non solo funzionò ma mi offrì la possibilità di scegliere tra Smart due posti, Smart forfour e Bmw. Bmw? Individuai un modello a pochi metri, nuovo di pacca, lo aprii, misi in moto e regolai la lingua del navigatore dal tedesco all’italiano. Però!

Cosa era successo nel frattempo? Perché la stessa app mi permetteva di scegliere anche Bmw e perfino auto elettriche, con un lieve sovrapprezzo? Seppi dopo che le due società tedesche avevano deciso di unificare il servizio in qualcosa che si sarebbe chiamato Share Now, integrando sia il servizio Car2Go delle Smart, che quello di DriveNow, della Bmw. Il cambiamento riguardava i clienti delle location in cui sia Car2go che DriveNow avevano finora operato distintamente (Berlino, Amburgo, Monaco, Colonia, Düsseldorf, Milano e Vienna). A quasi due anni dall’annuncio di fusione delle flotte, oggi i veicoli possono essere prenotati utilizzando esclusivamente l’app di Share Now, la joint venture pienamente operativa in Italia dal gennaio 2020. App a parte siamo di fronte a una rivoluzione profonda del mercato della mobilità. Un manager della Bmw che ho ospitato nel mio talkshow durante la Milano Digital Week ha detto: “Le vendite delle auto stanno calando in molti mercati del mondo e ci dobbiamo preparare a diventare fornitori di servizi per la mobilità, a cambiare il nostro lavoro di produttori di auto che va avanti dagli inizi del 1900. Questa è una sfida alla quale non possiamo sottrarci”.

Senza dubbio il mercato del car sharing è un settore difficile, dove i costi sono alti e i margini tendono a essere molto bassi. Resta però uno dei principali vettori per puntare l’auto come servizio e non più come asset da comprare e possedere.

Tra tutti, Bmw e Daimler hanno capito da tempo la possibile evoluzione del mercato e, già nel marzo 2018, avevano annunciato la fusione dei rispettivi servizi di condivisione delle auto in uno solo, per poter fare economia di scala e avere un’unica forte piattaforma.

Lo stato attuale vede sul territorio italiano circa 700mila utenti registrati e 3mila vetture disponibili. Strategicamente questa fusione in cloud, visto che le due aziende nella realtà restano ben distinte, ha anche l’obiettivo di consolidare la base utenti e magari sottrarre clienti all’unico concorrente che ha un certo spessore: Enjoy, servizio di sharing abilitato da Eni Smart Consumer, una divisione del gruppo Eni, che mette a disposizione le famose Fiat 500 rosse, che hanno raggiunto una capillare penetrazione in Italia ma che purtroppo, come sappiamo, hanno subito atti di vandalismo in alcune città, come Catania, dove il servizio è stato sospeso.

E qui si apre il capitolo sulla maturità dei cittadini e sul loro senso civico. Di quanti anni abbiamo bisogno per far digerire il concetto che un’auto “che non mi appartiene” – e che non posso riporre in garage per lucidarla la domenica – è comunque da rispettare? Proprio perché è un bene comune, come fosse l’acqua del rubinetto o la corrente che fa andare il frullatore.

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