Fees sta per spese, quindi scontrini, ricevute fiscali, fatture riposte in quel cassetto, poi in quell’altro, smarrite e poi ritrovate. In una parola: caos. Fees è il nome dell’app pensata per fare ordine nel marasma di carte, digitalizzando qualsiasi tipo di spesa. È una startup up lanciata da Matteo Mazzolari e Paolo Pavesi, giovani con un piede nella Silicon Valley, ma quartier generale a Cremona. Mazzolari e Pavesi appartengono alla generazione Z, rampolli dell’economia della conoscenza o – se si vuole – dell’Italia che ci fa sperare. E sognare.
Con questi talenti apre la serie Gli ZetaMillennials ad alto contenuto tecnologico. Abbiamo intervistato Mazzolari, ceo di Fees oltre che corporate account manager in Mailup.
Ha fondato Fees nel 2019, a 23 anni. Cosa c’è dietro il debutto precoce?
Mi è sempre piaciuto costruire prodotti innovativi. Da adolescente assemblavo computer e con gli amici ci si divertiva a creare dispositivi. A 22 anni lavoravo per una scaleup di San Francisco e mi appoggiavo a Soma, il coworking dove sono nati marchi come Instagram. Lì ho lavorato alla tesi di laurea sul modello di business del Software come Servizio (SaaS).
Una startup nata sulla scia dei continui viaggi intercontinentali, ovviamente in era pre-Covid. Ci racconti.
Facendo continue trasferte, confidavo nel fatto di riuscire a ricordare con precisione ogni singolo acquisto. Solitamente ho una buona memoria, ma a un certo punto mi sono reso conto che l’impresa era pressoché impossibile: scontrini e ricevute usurate, altre perse. Ho iniziato quindi a riflettere su quello che avrei potuto fare: trascrivere ogni spesa sul blocco note del mio smartphone, fotografare ogni scontrino catalogandolo in loco. Fees è una applicazione scaturita da un bisogno reale, vissuto sulla propria pelle e, soprattutto, comune.
Come siete messi in tema di investimenti?
Siamo partiti io e Paolo Pavesi, in bootstrapping, come si dice in gergo, con il nostro capitale. Abbiamo costituito Fees nel febbraio del 2019 e dopo 11 mesi abbiamo ricevuto il primo corporate round da Microdata Group, che, oltre a essere investitore, è diventato un vero e proprio partner tecnico. In virtù di questa partnership, siamo arrivati a un ulteriore aumento di capitale che valuta l’azienda 2 milioni di euro, il doppio rispetto all’anno precedente.
Chi lavora nella vostra squadra?
Siamo in otto. I programmatori sono Antonio Molinari e Stefano Vicini, cremonesi come me. Poi ci sono Fabio Codebue e Stefano Bertoli, entrambi da Brescia. Luca Bravo (Cremona) è senior web designer e Fulvio Lazzari (Bari) è product designer. Io e il mio socio Paolo Pavesi ricopriamo il resto dei ruoli. Paolo si concentra perlopiù sulla parte amministrativa, analitica e di web marketing. Io sono focalizzato su product management e business development. Abbiamo fornitori esterni che sono come una parte integrante del team: penso a Stefania Milo di Format Communication, con cui condividiamo l’ufficio, e Matteo Monfredini, ad di Mailup.
Per fare il botto, le start up devono avere prospettive internazionali in termini di finanziamento e mercati. Cito Riccardo Zacconi (Candy Crush): “Ci si lamenta della carenza di soldi, ma non è questo il problema. Sono tanti i soldi nel sistema mondiale di venture capital. Il nodo è un altro: la mancanza di idee e di team per realizzarle. Se non c’è un’idea forte e con potenziale internazionale, gli investimenti non si muoveranno mai dagli Stati Uniti, dal Regno Unito o dalla Francia con destinazione Italia”. Un suo commento.
Vero, il mercato italiano è piccolo, se comparato con il mondo. Non dimentichiamo, però, che è il quarto in Europa, quindi è un ottimo punto di partenza per fare mvp. Per poter avvicinare investitori è necessario costruire un prodotto altamente scalabile. Per questo stiamo lavorando molto sul perfezionamento del nostro modello di business e del funnel, importando modelli utilizzati nella Silicon Valley, come ad esempio il Plg – Product led growth.
Siete stati ospiti dell’Italy-Us Innovation Day a Stanford, testa della Silicon. Che contatti e opportunità sono nati?
Era il primo evento organizzato dall’Italia negli Stati Uniti con lo scopo di incoraggiare le collaborazioni tra ricercatori e leader nei settori tecnologici, industriali e scientifici. Purtroppo il Covid non ha poi favorito questo processo. Incontrammo l’allora ministro per l’Innovazione tecnologica, Paola Pisano, e prendemmo parte a tavole rotonde su temi come intelligenza artificale e machine learning, con docenti di Stanford come Marco Pavone.
Che clima si respirava nel coworking di San Francisco? Quanto era adrenalinico? E poi: competizione che si taglia col coltello?
In ufficio c’era sempre qualcuno, a qualsiasi ora e in qualsiasi giorno. La maggior parte del tempo l’ho passata con i colleghi di Mind the Bridge: in Mailup condividevamo l’ufficio. MtB è una realtà a stretto contatto con scaleup europee e, come ricorda il nome, l’obiettivo è gettare un ponte verso la Silicon Valley. Per esempio, con la Commissione europea avevano organizzato l’evento SEC2SV 2017 per portare le scaleup europee più performanti in Silicon Valley. È stata sicuramente la prima occasione di confronto con giovani come me, che già erano arrivati allo scaleup e si trovavano catapultati velocemente nella Silicon. Fu in quell’occasione che incontrai Francesco Capponi, al tempo developer in LinkedIn oltre che co-fondatore di Lead The Future. Francesco, oltre che un amico, è stato una figura di grande supporto. E grazie alla sua no profit ho conosciuto Diego Marchioni, cfo in Silicon Valley e mentore con cui sono costantemente in contatto e che con pazienza, professionalità ed amicizia ha seguito Fees.
Trova che la scuola italiana l’abbia preparato per essere chi è? Si critica spesso lo scollamento tra scuola e mondo del lavoro. Quanto sono giustificate queste critiche?
La scuola italiana offre una nozionistica ben superiore al resto del mondo, ma il divario tra studio e mondo lavorativo è immenso. Progetti di gruppo, laboratori e tirocini sono presi troppo sotto gamba dagli studenti e dalle stesse università, così si traducono spesso in obblighi burocratici anziché in momenti di produttività in cui capitalizzare importanti informazioni. È più facile capire come andare in bicicletta ricevendo i giusti consigli e pedalando invece che studiandone anticipatamente e approfonditamente la cinematica. La pratica non sostituisce la teoria, ma si deve integrare con maggiore efficienza. Negli atenei statunitensi la pratica influisce fortemente sulla valutazione finale ed è contemplato il concetto di errore e fallimento, da intendersi come molla di apprendimento. In Italia invece si parla sempre di successo, di massimi risultati a fronte di una marea di laureati con lode che restano disoccupati, oltre che non educati al problem solving.
Opera in un’area come la Silicon Valley, ad alta densità di talenti e con una potente rete di relazioni. Come si sente quando rientra a Cremona?
È come arrivare dal futuro. Non è facile tornare a casa e riconnettersi con i nostri stereotipi e con il solito opinionismo italiano. A volte mi sento un pesce fuor d’acqua. A San Francisco, in una qualsiasi serata, ti ritrovi a confrontarti su AI, reti neurali e machine learning con programmatori di Google, Facebook o vari unicorni. Per tenere la mente attiva, qui in Italia, è importante inserirsi nel contesto giusto, oppure – meglio ancora – costruirlo. Per noi questo ambiente è il Crit di Cremona, ovvero il polo tecnologico in cui siamo stati tra i primi a insediarci e che stiamo contribuendo a forgiare per favorire la crescita, le relazioni, l’innovazione sul territorio. Tutto questo, con l’aiuto di Microdata, Mailup e di tutti i resident.
Cosa si aspetta da questo governo? Di cosa c’è assoluta urgenza nell’imprenditoria ad alto contenuto tecnologico?
L’italia sta avanzando nel processo di trasformazione digitale. Qualcosa è stato fatto, però in tema di startup siamo ancora troppo indietro rispetto al mondo e alla stessa Europa, e in particolare nell’early stage, nel supporto allo scaleup e nell’incentivare le aziende a fare open innovation. Deve essere migliorata la strategia di erogazione dei bandi a supporto dell’innovazione per i quali, purtroppo, nella maggior parte dei casi prevale la burocrazia sullo spunto innovativo e sostenibile del progetto.
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