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“L’università deve formare persone in grado di utilizzare le tecnologie digitali”: il metodo delle academy della Federico II

Transizione digitale nella finanza, nella mobilità, nella gestione della conoscenza, nelle relazioni. Il cambiamento è profondo e generalizzato, ma soprattutto richiede una generazione di manager in grado di gestirla. Il capitale umano è una priorità, e qui la battaglia si fa dura. Abbiamo terreno da recuperare. Magari al seguito di coloro che stanno tracciando percorsi innovativi e – speriamo – scalabili. Come Giorgio Ventre, coordinatore scientifico delle academy dell’Università Federico II di Napoli. 

Il ruolo dell’accademia, della formazione, della valorizzazione del capitale umano è il primo punto all’ordine del giorno nella transizione digitale?

Tutte le valutazioni e le analisi sui problemi del nostro paese evidenziano che c’è un problema di competenze. Quindi l’università ha un ruolo. Ma al di là dell’aspetto istituzionale, l’accademia deve offrire sempre più formazione multidisciplinare. Un esempio: se in un ambito molto specifico come quello della medicina le competenze digitali diventano sempre più importanti per l’uso di tecnologie, significa che dobbiamo formare medici con piena comprensione di queste tecnologie e in grado di applicarle. L’università non può più formare il classico medico o il classico esperto di comunicazione o il classico avvocato giurista, ma professionisti in grado di utilizzare al meglio queste tecnologie. 

Le academy della Federico II vanno in questa direzione. Come funzionano? Sono un modello scalabile anche per le altre università?

Nascono proprio per compensare la rigidità del sistema accademico basato sull’iperspecializzazione. Quando abbiamo cominciato a lavorare sulle academy con Apple e poi con Cisco, Deloitte e altre aziende, ci siamo resi conto che l’offerta formativa doveva essere complementare a quella classica dell’università. Le academy sono uno strumento per dare la possibilità agli studenti di approfondire un tema legato alle tecnologie digitali, in parallelo o dopo il percorso di studi tradizionale. Oggi le regole alla base di un corso di studi prevedono una prevalenza massiccia di un’area specifica o di poche discipline, quindi non c’è spazio per la formazione alla trasformazione digitale. Le academy sono invece uno strumento ideale, perché agiscono in parallelo e sono libere dai vincoli burocratici.

Nel mondo accademico italiano ci sono la consapevolezza e la spinta innovativa necessarie?

La mia percezione è che, tranne pochi casi di atenei da sempre portati a sperimentare e innovare, gran parte dell’accademia italiana è restia al cambiamento, perché questa offerta didattica viene vista come una possibile distrazione, se non addirittura un’opzione concorrenziale. Invece, da quando abbiamo istituito la Apple e le altre academy, ogni anno aumenta il numero di studenti che si iscrivono (tra il 5 e il 10%), il che significa che abbiamo una capacità di attrazione anche nei confronti dell’offerta didattica tradizionale. Uno schema che è scalabile, anche se costoso, perché si affianca all’offerta tradizionale, ma, vivendo il rapporto con le imprese, è un bagno di realtà, di concretezza, di esperienza.

La sensazione è che anche la politica non abbia questa consapevolezza.

Abbiamo visto grandi manifestazioni di apprezzamento da alcune parti politiche e ministri. Altri hanno un atteggiamento più freddo. In generale, si percepisce l’importanza di far entrare le imprese in università. Ma non ci sono risorse destinate, e invece credo che l’inserimento di premialità di fondi per incoraggiare l’università a questo approccio sarebbe un passo avanti.

Ci sono altri punti di vista da comprendere e che devono essere protagonisti della transizione digitale?

La multidisciplinarità deve riguardare anche la tecnologia, per cambiare prospettiva nei corsi di studio stem: non solo un medico deve essere consapevole del potenziale delle tecnologie digitali, ma è anche molto importante che gli ingegneri informatici capiscano quali sono le esigenze specifiche nella medicina, nei beni culturali o nella gestione degli enti pubblici.

Possiamo dire che è stata stravolta la mappa economica e geopolitica globale?

Senz’altro. L’Europa è indietro nel digitale e non ha ancora del tutto capito il potenziale di rottura di queste tecnologie, perciò non è stata in grado di creare un fronte comune per competere con americani e asiatici, rendendoci dipendenti da questi paesi. Basta guardare ai taxi a guida autonoma di San Francisco, con tutto quello che ne consegue in termini industriali e di servizi. In Europa non è ancora chiaro, forse, che un’auto è qualcosa di differente dalla meccanica o dall’elettronica. Quindi il mondo delle imprese non investe in settori nuovi. Per capirci, non avviene quello che invece si sta verificando nell’aereospaziale o nella cantieristica, dove siamo trainanti a livello globale.

Chiudiamo con il caso positivo di Napoli. Chi e che cosa la sta rendendo protagonista dell’innovazione in Italia?

Napoli ha una tradizione di tecnologia, ingegneria, scienza, innovazione. Negli ultimi anni si sono create condizioni che l’hanno rilanciata: il ruolo della Federico II nell’innovazione e della Regione con finanziamenti e incentivi per startup, i flussi turistici che hanno rilanciato l’immagine internazionale. Ora serve l’apporto del governo nazionale e dei fondi europei, che devono essere orientati a ricerca e innovazione. È questo il messaggio che stiamo lanciando. Speriamo che qualcuno lo ascolti. 

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