Kirsten Dunst ci ha sempre tenuto a fare le scelte giuste. Ha sempre mirato a ruoli di un certo spessore, a volte complessi e originali. Ha lavorato con Sofia Coppola in The Virgin Suicides. E ancora, in Marie Antoniette, in The Beguiled, in Melancholia di Lars von Trier o nel più recente dramma psicologico The Power of the Dog, di Jane Campion, per cui ha ricevuto la sua prima nomination all’Oscar.
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E perfino quando si è distinta in un blockbuster come la Spider-Man Trilogy, nel ruolo di Mary Jane Watson, la donna che ama l’Uomo Ragno, interpretato da Tobey Maguire, ci ha tenuto che il suo personaggio avesse spessore, fosse forte e artefice del proprio destino. Per questo, come anche per dedicarsi a crescere i due figli avuti col marito, l’attore Jesse Plemons, conosciuto sul set della serie Fargo, Kirsten si è mantenuta per un po’ di tempo lontana dai riflettori.
“Non c’è nulla di male a prendersi una pausa, per riflettere e decidere quello che si vuole veramente fare. Prendo il mio lavoro molto sul serio e so che le mie scelte possono influenzare anche il mio pubblico in un certo modo e dare un’immagine ben precisa di me”, ha detto. In Civil War, scritto e diretto dal britannico Alex Garland, e recentemente presentato al South by Southwest di Austin in Texas, Kirsten ha di nuovo un ruolo importante da protagonista.
Interpreta una giornalista e fotografa durante una guerra civile combattuta negli Stati Uniti, tra un governo autoritario e diverse fazioni regionali secessioniste. Nel film un gruppo di giornalisti si avventura in un viaggio da New York a Washington per intervistare un presidente americano dispotico al suo terzo mandato, prima che i ribelli prendano la capitale.
Civil War è stato criticato per le tematiche sulla violenza e sui movimenti di secessione in un momento tanto delicato nella storia americana, quello delle elezioni americane e del confronto tra Biden e Trump…
Penso che la storia aiuti ancora di più a riflettere sulle scelte giuste da fare. È stato rischioso affrontare tematiche del genere adesso, ma sono fiera del mio personaggio, che è forte e determinato, ma anche empatico. L’empatia è uno dei sentimenti di cui abbiamo più bisogno, così come la comunicazione e le conversazioni aperte, contro ogni polarizzazione. Nel film recita anche mio marito Jesse, nei panni di un soldato barbarico: anche lui è stato conquistato dalla sceneggiatura. Ricordo che quando l’ho cominciata, non ho più smesso: non ho mai letto nulla del genere. Quando Alex stava scrivendo, stava nascendo il mio secondo figlio e la Russia aveva invaso l’Ucraina… Avvertii da subito la necessità di partecipare a questo progetto.
Ci sono diverse scene forti nel film, tra cui una in cui suo marito Jesse, nei panni di questo soldato razzista, chiede agli altri protagonisti: “Che tipo di americano sei tu?” Esaltando la razza bianca…
È un momento davvero drammatico, di cui non voglio rivelare troppo, per non rovinare il film… E, che vi farà sicuramente riflettere sul momento che stiamo vivendo. Penso che tutti dovrebbero vedere questo film, per rendersi conto dell’importanza del serio giornalismo e della libertà, come della democrazia. È pericoloso il fatto che la democrazia, troppo spesso, non sia valutata a sufficienza e sia data per scontata.
Nel film c’è molta azione, con tanta violenza, ma anche un rapporto particolare che si sviluppa tra i protagonisti, la missione di raccontare i fatti con la fotografia realista e di documentarli..
Questo film è un blockbuster e un film d’azione, ma ha anche tanta umanità ed emozioni e si focalizza sulla professione dei giornalisti, che per fare il loro lavoro rischiano la vita.
Come si è preparata per interpretare questo ruolo?
Dal documentario Under The Wire del 2018, che racconta la storia di Marie Colvin. Volevo che Lee fosse come lei, una giornalista seria, che non pensa a mettere in evidenza se stessa, ma che vuole documentare e raccontare la pura verità. Sapevo quanto sia importante la macchina fotografica per un giornalista di guerra. Ho scelto di fotografare con un obiettivo Leica, mettendo a fuoco manualmente. Volevo che la macchina fotografica fosse sempre con me, come una appendice. Il regista, Alex Garland, è cresciuto in mezzo a giornalisti, conosce bene questo mondo. Suo padre Nicholas Garland era un cartonista politico per un quotidiano.
Si è distinta fin da bambina nella recitazione quando ha interpretato, a 11 anni, un vampiro nel film Interview with the Vampire con Tom Cruise e Brad Pitt…
Ho cominciato a recitare molto presto e per un certo periodo ho incolpato mia madre di avermi fatto lavorare fin da bambina, perché sentivo che avevo perso la mia infanzia. Ma ora mi rendo conto che non poteva fare altrimenti. Sono nata nel New Jersey, mio padre era tedesco e lavorava alla Siemens come dirigente nel settore medico, mia madre era una hostess della Lufthansa ed era americana, ma di origini tedesche-svedesi. Cominciai a lavorare a tre anni come modella per pubblicità televisive. Avevo 11 anni, quando i miei genitori divorziarono e io, mia madre e mio fratello ci trasferimmo a Los Angeles. Guadagnare era necessario per riuscire a mantenerci. Mia madre aveva le migliori intenzioni, vide un’opportunità e la colse, dato che avevo talento e mi ero distinta fin da subito a scuola nella recitazione. Ma io, essendo molto introversa, ho avuto spesso problemi a relazionarmi con quella fama improvvisa.
Farà scelte diverse per i suoi figli? Non li vuole vedere a Hollywood?
Li lascerò scegliere quello che vogliono. So che crescere come ho fatto io non è di certo il modo migliore per un bambino. Ma non mi lamento: sono stata fortunata ad avere tanto successo e ora ho perfino la mia bella famiglia. So che tutti hanno le loro grane e che la vita implica non solo gioie, ma molti problemi. È fondamentale riuscire ad affrontarli al meglio e non lasciarci influenzare da quello che pensano gli altri. Nella mia vita ho sofferto anche di forti depressioni.
Che progetti ha per il futuro?
Mi piacerebbe lavorare ancora con Sofia Coppola e mi fa piacere che alcuni film che avevamo fatto in passato, molto indipendenti, siano stati rivalutati di recente. Ha sempre avuto una visione molto coraggiosa e tutta sua. E questo l’ha portata ad avere successo, perché ha uno stile unico e una grande sensibilità con gli attori. Rispetta sempre le nostre opinioni, vuole farci sentire a nostro agio. E poi non disdegnerei anche altri film di Marvel e mi piacerebbe essere magari pure in un seguito di Jumanji. Il primo film, del 1995 e in cui recitai con lo straordinario Robin Williams, è piaciuto molto a mio figlio più grande.
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