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Chi è Stefano Marchesi, il professionista della comunicazione che lavora per le star del calcio

Articolo tratto dal numero di dicembre 2024 di Forbes Italia. Abbonati!

Lavora dietro le quinte, ma è sempre in prima linea. Costruisce l’immagine, scolpisce carriere, cura le relazioni di grandi campioni dello sport, soprattutto del calcio. Stefano Marchesi ha cominciato a Verona e a Udine, come responsabile della comunicazione, ma oggi il suo terreno di gioco è l’Europa, con un focus speciale sulla Premier League.  Dopo aver lavorato nei club, ha intuito per primo che era necessario spostare l’attenzione sulla consulenza ai singoli professionisti del calcio, che stavano gradualmente diventando piccole imprese e richiedevano una guida strutturata ed efficace nell’ambito delle pr. Così si è messo in proprio come manager indipendente e ha avuto tra i suoi clienti calciatori e allenatori di livello internazionale, oltre ad alcune delle più importanti agenzie di management.

La sua è una carriera caratterizzata da case history di successo, trascorse accanto a José Mourinho, Antonio Conte, Francesco Farioli, Ali Barat e la sua Epic Sports (agenzia e clienti Moises Caicedo, Nicolas Jackson, Ian Maatsen), Federico Pastorello e la sua P&P Sport Management (agenzia e clienti come Romelu Lukaku o Francesco Acerbi), Roc Nation Sports (sempre per Lukaku), Caa Sports per Carlo Ancelotti, Vigo Global Alliance Sport Services per Nicolò Zaniolo e Keita Balde e tanti altri.

Marchesi, lei lavora nel calcio da più di 20 anni: in questo periodo è cambiato tutto, anche nella comunicazione, soprattutto con l’avvento dei diritti tv.

Sono cambiati i tempi, i modi, le piattaforme e, in generale, l’intero scenario della comunicazione. Ma per analizzare e capire il cambiamento dobbiamo partire da un dato di fatto: oggi il calcio non è più solo uno sport. È un’industria di intrattenimento sportivo alimentata principalmente dal denaro proveniente da diritti tv e diritti di immagine, che sono forme di comunicazione: parliamo dell’80% su un totale di quasi 30 miliardi di euro di fatturato annuo a livello europeo. 

Praticamente è diventata un asset strategico.

Sì, la comunicazione oggi è un asset strategico per l’industria del calcio: genera quel flusso economico di cui beneficiano a cascata i guadagni di calciatori, allenatori e agenti. Però il sistema calcio gestisce la comunicazione come un asset strategico, come ci indicano chiaramente i numeri e i fatturati?

Visto che si è fatto la domanda, si dia anche una risposta.

(Sorride) Proprio per questo porto avanti un modello di lavoro che concentra la sua attenzione sul risultato, passando attraverso una fattiva e reale collaborazione fra tutte le parti in causa, quindi media, club, calciatori, allenatori e agenti. Laddove esistono barriere cerco di creare punti di contatto e dialogo, con lo scopo di assottigliare le distanze e far convergere gli obiettivi verso un traguardo comune. Il calcio è un’industria che vive di relazioni, per questo è fondamentale lavorare per armonizzare i rapporti tra calciatori, allenatori e media. Siamo tutti sulla stessa barca: senza calciatori e allenatori non esiste lo spettacolo, senza i media non esiste la cassa di risonanza che permette allo spettacolo di essere globale e remunerativo. È un rapporto di interconnessione e interdipendenza che suggerisce buon senso nella gestione di questa relazione, nel miglior interesse di tutti, tifosi compresi. È necessario aprire un dialogo costruttivo con i giornalisti, non solo per una migliore comprensione degli aspetti tecnici, ma anche per abbattere quelle barriere esistenti tra i protagonisti del calcio e dei media. 

Il modello è la Premier inglese?

Da parecchi anni ormai lavoro prevalentemente fuori dall’Italia, tra Premier League, Bundesliga, Ligue 1 e, questa stagione, Eredivisie, in Olanda. Negli ultimi anni ho avuto modo di lavorare spesso nell’ambito della Premier League e ho constatato in prima persona quanto siano importanti nell’ecosistema inglese la cura dei dettagli, la qualità e l’appetibilità dei contenuti editoriali: non c’è da sorprendersi se la Premier League ha questo dominio nella capacità di generare introiti enormi. A tutti gli effetti è la miglior industria di intrattenimento sportivo a livello globale. È quello che nel mio piccolo sto cercando di fare: focalizzare sempre di più il lavoro sull’importanza delle relazioni, oltre che della qualità dei contenuti e dei prodotti editoriali. 

E lei come si muove?

Cerco di focalizzare sempre di più il lavoro proprio sull’importanza delle relazioni, oltre che della qualità dei contenuti e dei prodotti editoriali. Viaggio spesso nel Regno Unito per incontrare i rappresentanti dei club, i giornalisti, ho un ottimo rapporto con la Pfa, l’Associazione calciatori inglese, con i cui dirigenti condividiamo la necessità di tutelare la salute mentale dei giocatori. Viaggiare è molto importante, soprattutto per incontrare tanti addetti ai lavori dei media con i quali spesso ci teniamo in contatto solo per telefono. Questo perché i maestri che mi hanno insegnato a lavorare nel calcio mi hanno trasmesso il concetto che le vere relazioni si curano ‘face to face’. Tra i miei dieci comandamenti professionali, alcuni dei più importanti sono viaggiare e condividere del tempo di qualità con le persone con le quali ho il piacere di lavorare.

Come si costruisce la percezione dell’immagine di un calciatore?

Il peso economico di diritti tv e di immagine rende necessario un approccio iper professionale e specializzato nell’ambito della comunicazione: per i club, per i calciatori, per gli allenatori e per gli agenti. I protagonisti del calcio hanno rapporti diretti o indiretti con i rappresentanti dei media che fanno da tramite rispetto al destinatario finale che è il tifoso. Tutto ciò che riguarda questo rapporto con i media, nell’ambito di occasioni ufficiali come interviste, conferenze stampa, oppure nelle cosiddette relazioni ‘off the record’, va gestito per avere il maggior controllo possibile sull’immagine percepita.

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