Danilo Venturi
Forbes Italia

Dalla pelle al pixel: sincretismi ed evoluzione tra moda e tecnologia

di Danilo Venturi*

Da anni l’etnografo Massimo Canevacci parla di sincretismi, città polifoniche e cittadinanze transitive: alla fine le sue profezie, almeno nella moda, si sono avverate. A giocare un ruolo in questo senso è il grande trend del momento, l’intelligenza artificiale, ultimo moto d’accelerazione della tecnologia verso la singolarità. È contrastata da chi pensa possa sostituire il suo lavoro o da chi sostiene che l’umanità perderà il controllo di se stessa. Ma è comunque sulla bocca e sul corpo di tutti: l’intelligenza artificiale è infatti solo la punta dell’iceberg di una tecnologia che oggi indossiamo quotidianamente. È estensione del nostro corpo.

L’identità

Quali animali nudi, viviamo infatti avvolti da strati protettivi: abbiamo una prima pelle, l’epidermide; una seconda, gli abiti e gli accessori; una terza, la casa e l’arredamento; una quarta, la città o comunque un ambiente artificialmente determinato; e una quinta, la tecnologia appunto, più pervasiva di tutte le altre. Tutte le nuove pelli dicono qualcosa di noi tanto quanto i primi mezzi di comunicazione epidermici, che erano i tatuaggi e i piercing.

L’uso comunicativo delle nostre pelli dà un senso a ciò che non l’avrebbe: esse parlano di identità. Comunicano chi siamo, cosa possediamo e, nella tarda società dei consumi, anche cosa buttiamo o decidiamo di non buttare. Lo stesso concetto di marca nasce dalla pelle: la parola brand, infatti, si riferisce originariamente al marchio a fuoco apposto agli animali della stessa mandria. Include quindi le proprietà specifiche di quegli animali che si presumono essere omogenee, il fatto che appartengano allo stesso proprietario e, in nuce, anche l’appropriazione stessa, dato che quegli animali in natura non appartenevano a nessuno e certamente non pensavano di avere proprietà specifiche omogenee.

Il vintage

Detto questo, va ricordato che dove c’è un trend, c’è sempre un contro-trend. È un moto naturale e su questo si basano strategie come quella della pecora nera: là dove tutti vanno da una parte, qualcuno va dalla parte opposta e così trova il suo ricco pascolo. Se quindi da una parte la tecnologia è imperante in ogni ambito, dall’altra parte si guarda al passato, riemerge il vintage (che nell’abbigliamento coincide il più delle volte con l’usato).

Questo fenomeno è in parte collegato a un pensiero sostenibile: si rifiuta il nuovo (che spesso appartiene alla logica dell’obsolescenza programmata del gusto e della materia) e si riusa il vecchio, attingendo inconsapevolmente alla psicologia, all’antropologia e persino alla teologia. L’usato è un sopravvissuto, o persino un resuscitato, e da qui la sua aura di sacralità. L’usato permette di vivere un’epoca senza esserci stati, è un viaggio nel tempo verso l’arcadia, cioè la sensazione per cui “una volta era meglio”, anche se non è vero. Infine, indossando l’usato, si indossa la seconda pelle di qualcuno che l’ha indossato prima. Non è un caso che i jeans siano sempre strappati sul davanti: in una logica atavica, lo strappo è segnale di una lotta avvenuta. Se lo strappo fosse dietro vorrebbe dire che il nostro lottatore stava scappando. In ogni caso, il jeans consumato significa vissuto, anche in senso lato.

Nell’arredamento invece il vintage va oltre la semplice pratica decorativa: significa spesso anche un viaggio nello spazio, là dove i pezzi ricercati provengono da luoghi lontani, esotici, diversi, altri. Il rapporto è qui con l’altro e l’alterità. Quando la mania prende forma di collezionismo, allora il desiderio nascosto è quello di ordine, in un mondo in veloce cambiamento che sembra disordinato.

Il vintage non è solo negli oggetti, ma anche nelle pratiche visive, come la fotografia. Se da una parte chiunque può scattare foto in 4k dal cellulare, dall’altra emerge il contro-trend della camera oscura. C’è quindi una disponibilità di strumenti amplissima e quando questo accade, il focus non è più sul mezzo, ma sul contenuto. L’evoluzione degli strumenti fotografici porta alla centralità del soggetto, all’immagine, cioè a un taglio tutt’altro che tecnico, ma umanistico.

L’intelligenza artificiale sostituirà l’umano?

Recentemente il Financial Times ha scritto di Milano definendola una capitale d’arte del futuro, pur essendo una città in cui la storia è preponderante. Ciò non deve stupire: l’idea di passato e di futuro funzionano allo stesso modo. Per definire il passato ci basiamo sui reperti e inventiamo il resto che chiamiamo storia. Per definire il futuro, ci basiamo su elementi anticipatori, ma il racconto è allo stesso modo deduttivo. A differenza del passato, il futuro spaventa, ma non dovrebbe, perché il passato ci insegna che il futuro non lo sostituisce, ma lo integra. Succede per un luogo sacro (su cui se ne costruisce un altro), così come per i media.

La tv ad esempio non ha sostituito la radio, anzi, ne ha ampliato i canali. YouTube non ha sostituito la tv, anzi, guardiamo più tv lì che dallo schermo di una tv. E l’intelligenza artificiale non sostituirà l’umano, anzi. Dato che le basi tecniche, come ad esempio la grafica, saranno a portata di tutti, ciò che farà la differenza sarà l’errore umano.

Il brutto

In un contesto simile, il brutto – inteso come quel rigetto iniziale che poi con l’abitudine diventa un nuovo standard – sarà la chiave (ad esempio l’anti-estetica di Prada nella moda). Insieme alla convergenza, quel fenomeno per cui le funzioni e i tratti estetici di un settore entrano dentro a un altro: ad esempio, un iPad può essere oggi considerato una libreria. Infine, il pensiero laterale: se siamo disponibili a stare in fila al freddo per un nuovo iPhone mentre compriamo la moda in sconto comodamente dal divano con un iPhone, allora significa che la moda è il divano stesso e l’iPhone. Lo spirito del tempo è perfettamente rappresentato dall’ultima campagna di Balenciaga scattata da Jürgen Teller che riprende divani vintage per strada con e addirittura senza modelli. Campagna che, ovviamente, si presta ad una pubblicazione, condivisione e ricondivisione via social network.

Anche il business allora si fonde con l’arte e la gestione dell’immagine del brand: arricchendola di significati intricati, diventa curatela, qualcosa di più sofisticato rispetto al lineare brand management. Ma anche qui, niente di nuovo, il futuro cresce sul passato: non era forse il Vasari a raccontarci come gli artisti del Rinascimento passassero più tempo a trovare finanziamenti che a creare arte? Sono tutti sincretismi, avvengono nelle città polifoniche, e creano cittadinanze transitive, appartenenze concentriche, sempre in evoluzione e ibridazione, che trascendono le nostre identità strettamente intese.

* Danilo Venturi, già direttore di Ied Firenze, è oggi direttore dell’Istituto Europeo di Design di Milano. È autore di Brand Persona: The Four Step Method. Con una formazione in scienze politiche, ha iniziato la sua carriera nell’industria musicale. È stato tra i precursori dell’e-commerce e dei concept store e ha lavorato per il marchio di lingerie La Perla. Ha conseguito un master in luxury management. Il suo modello educativo – descritto da Forbes come ‘The Reign of Error’ – ha coinvolto gruppi, marchi e istituzioni come Lvmh, Richemont, Gucci, Wgsn, Cfda e Pitti Immagine, oltre a personalità come Marina Abramovic, Alber Elbaz, Renzo Rosso, Waris Ahluwalia, Rick Owens e Suzy Menkes. Come direttore Ied Danilo Venturi si impegna nel promuovere la contaminazione dei linguaggi di moda, arte e design.

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