Da non perdere |Forbes Italia
12 novembre 2025

Non tutte le startup dovrebbero accelerare: la complementarità tra competenze e investitori è la chiave per creare valore

Una ricerca su 6.800 nuove imprese mostra come programmi d’avvio aiutino team tecnici con skill limitati sul business, favorendo crescita.
Non tutte le startup dovrebbero accelerare: la complementarità tra competenze e investitori è la chiave per creare valore

Edoardo Prallini
Scritto da:
Edoardo Prallini

Non tutti gli acceleratori fanno bene alle startup. E, soprattutto, non a tutte le startup. È questo il messaggio che emerge da una delle più ampie analisi mai condotte sul rapporto tra fondatori, acceleratori e investitori finanziari, firmata da Simone Santamaria e Stefano Breschi, rispettivamente della National University of Singapore e dell’Università Bocconi. Pubblicato su Organization Science, lo studio si basa su un campione di oltre 6.800 startup in 15 paesi, analizzate attraverso i database Crunchbase e LinkedIn, e offre un’evidenza robusta: la combinazione giusta tra tipo di team e tipo di investitore è decisiva per creare valore.

Acceleratori: efficaci solo se colmano le competenze mancanti

“Gli acceleratori sono un match ideale per i team forti dal punto di vista tecnologico ma deboli sul piano del business”, spiega Stefano Breschi, professore di Applied Economics alla Bocconi. “In questi casi la formazione e il mentoring tipici dei programmi di accelerazione colmano lacune cruciali. Al contrario, quando gli imprenditori hanno già solide competenze manageriali, l’effetto dell’acceleratore è minimo o addirittura nullo”.

Il punto di partenza è semplice ma poco esplorato: le startup non scelgono gli investitori solo per i capitali che offrono, e gli investitori non selezionano solo in base all’idea di business. Entrambe le parti cercano un ‘fit’, un incastro tra risorse e competenze che massimizzi la possibilità di crescita. Santamaria e Breschi applicano a questo processo un modello di two-sided matching, una metodologia derivata dalla teoria dei mercati bilaterali, capace di individuare le complementarità o le sostituzioni tra risorse. “Abbiamo voluto capire”, continua Breschi, “se e quando le competenze offerte dagli acceleratori si sommano o si sovrappongono a quelle già presenti nei team. I nostri risultati mostrano che il valore nasce dalla complementarità, non dalla ridondanza”.

I numeri della complementarità

L’analisi statistica conferma l’intuizione teorica. Le startup con fondatori provenienti da percorsi Stem (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica) ma senza un background economico o manageriale raccolgono in media il 37% di finanziamenti in più nelle fasi successive se passano da un acceleratore, rispetto a startup simili finanziate da investitori puramente finanziari. Quando invece nel team è presente almeno un fondatore con formazione in business o Mba, l’effetto positivo dell’acceleratore scompare completamente.

Un dato che il paper definisce ‘substitution effect’: la formazione e il mentoring offerti dall’acceleratore diventano ridondanti per chi ha già interiorizzato le logiche di mercato e gestione. Per queste imprese, meglio puntare su investitori come venture capital o business angels, più focalizzati sull’espansione e sulla scalabilità.

Il campione è imponente: oltre 1,9 milioni di possibili abbinamenti startup-investitore sono stati analizzati per ricostruire i criteri impliciti di selezione. Tra gli acceleratori più presenti nel dataset figurano nomi noti come Y Combinator, Techstars, 500 Startups, MassChallenge e Start-Up Chile. L’età media dei fondatori è di poco superiore ai 30 anni, e quasi la metà dei team conta almeno un dottorato o una laurea magistrale.

Accelerare sì, ma con metodo

Il risultato rovescia una convinzione diffusa nell’ecosistema: che partecipare a un programma di accelerazione sia sempre e comunque positivo. “L’effetto dipende da chi sei e da cosa ti serve”, sintetizza Breschi. “Se sei un ingegnere o uno sviluppatore con un’idea promettente ma poca esperienza di mercato, l’acceleratore è una palestra perfetta. Ma se hai già una forte identità imprenditoriale, rischia di essere un freno”.

La ricerca evidenzia anche come il processo di abbinamento non sia sempre efficiente. Nonostante la forte complementarità osservata, la localizzazione geografica e la vicinanza settoriale restano i fattori che più spesso determinano chi investe in chi. “Ciò significa”, osserva Breschi, “che molte startup non finiscono con l’investitore più adatto in termini di risorse complementari. Una migliore comprensione di questi meccanismi potrebbe evitare sprechi di valore e aumentare la probabilità di successo”.

Implicazioni per policy e investitori

Oltre all’impatto accademico, lo studio offre spunti per la politica industriale e l’ecosistema dell’innovazione. In un momento in cui governi e università investono massicciamente in programmi di accelerazione, capire per chi funzionano davvero è cruciale. Il modello sviluppato dai due economisti suggerisce un approccio mirato: destinare le risorse di training e mentorship alle startup con lacune di business, lasciando agli investitori finanziari il compito di sostenere chi è già pronto al mercato.

“Non basta moltiplicare gli acceleratori”, conclude Breschi. “Bisogna selezionare i team in base alle loro esigenze reali e alle risorse che mancano. Solo così si massimizza la creazione di valore e si riduce la dispersione di capitale umano e finanziario”. In altre parole, accelerare non significa solo correre più veloce: significa partire dal blocco giusto.

Questo articolo è stato notarizzato in blockchain da Notarify.

QR Code certificazione Notarify

CERTIFIED BY NOTARIFY