“Abbiamo relazioni strategiche di lungo corso con gli Stati Uniti e con la Cina. Penso che potremmo ridurre le distanze tra queste due potenze”. Così si è espresso all’emittente Cnbc il ministro delle Finanze saudita Mohammed Al Jadaan durante il World Economic Forum di Davos a gennaio. Quest’anno nel consesso svizzero le protagoniste sono state le delegazioni dei paesi del Golfo come l’Arabia Saudita, che si è posta quale possibile mediatore tra gli Usa, storico alleato, e la Cina, suo nuovo importante partner commerciale.
L’obiettivo del governo e del suo controverso principe ereditario e primo ministro, Mohammad bin Salman (Mbs), è chiaro: trasformare il paese da potenza regionale a potenza globale.
Riad, sfruttando le difficoltà di Usa ed Europa, causate anche dalla guerra in Ucraina, vuole rafforzarsi a livello geopolitico e, con l’incremento delle entrate petrolifere, diversificare di più la sua economia. L’Arabia Saudita ambisce non solo a entrare nei paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), ma anche a diventare l’unico stato guida del mondo islamico, ruolo conteso anche da Iran e Turchia. Mbs sa che non potrà raggiungere questi obiettivi chiudendosi al mondo occidentale, perciò vuole mostrarsi moderno e visionario agli occhi del mondo.
Nel 2017 ha lanciato un piano di modernizzazione del paese e della sua economia, denominato Vision 2030, per diminuirne la dipendenza dalla vendita di petrolio, da cui oggi proviene il 90% del Pil. Per diversificare la sua economia il principe vuole incrementare anche il turismo, non solo religioso, puntando ad accogliere oltre 30 milioni di viaggiatori l’anno.
La nuova relazione con la Cina
Dal punto di vista geostrategico, Mbs si sta impegnando a rafforzare i rapporti con la Cina. Lo stesso Xi Jinping, volato a Riad a dicembre, ha affermato che è iniziata “una nuova era nelle relazioni tra Cina e Arabia Saudita”. Nel bilaterale i due capi di stato hanno siglato 34 accordi commerciali per un valore di oltre 30 miliardi di dollari.
Le partnership più rilevanti sono nella rete 5G saudita, affidata alla cinese Huawei, e nel complesso petrolchimico da oltre 10 miliardi realizzato in Cina dalla compagnia petrolifera statale Saudi Aramco. Oggi l’interscambio commerciale tra i due paesi ha superato gli 80 miliardi di dollari e l’Arabia Saudita è diventata il primo fornitore di petrolio della Cina, con 81 milioni di tonnellate l’anno. L’accordo più dirompente a livello geopolitico, però, è quello sul petrolio saudita che la Cina potrà pagare anche in yuan e non più solo in dollari americani. Questo rafforzerà la valuta cinese a discapito di quella statunitense e rischia di scalfire il predominio valutario di Washington, basato anche sull’uso esclusivo del dollaro nei pagamenti del petrolio.
Le tensioni tra Arabia Saudita e Stati Uniti
I rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita, invece, risalgono alle prime ricerche di petrolio delle compagnie americane nel deserto arabo, culminate nel 1945 con la creazione della Aramco, Arabian American Oil Company, la compagnia petrolifera statale saudita. Da allora il rapporto tra i due paesi si è fondato sullo scambio petrolio-sicurezza: i sauditi vendevano petrolio e permettevano alle compagnie americane di trivellare nel loro paese in cambio di forniture militari (tuttora il 70% proviene dagli Usa) e di protezione dall’Iran, l’altra grande potenza regionale.
Tra Usa e Arabia Saudita, però, oggi ci sono motivi di tensione. Il governo americano è irritato per il rifiuto saudita, a ottobre, di aumentare la produzione di petrolio, che sarebbe servita per abbassare i prezzi dei carburanti negli Usa prima delle elezioni di medio termine. La produzione, invece, è stata tagliata di circa due milioni di barili al giorno: mossa che, oltre ad aumentare gli introiti per i paesi produttori, avrebbe finito per favorire il partito Repubblicano alle elezioni di medio termine.
Il principe saudita non ha mai nascosto, d’altra parte, la maggiore vicinanza all’ex presidente Donald Trump, che aveva rigettato gli accordi distensivi sul nucleare siglati da Obama con l’Iran. I rapporti con Biden non sono mai decollati e non solo per divergenze di politica energetica. Lo sconcerto dell’opinione pubblica americana per il brutale assassinio del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi, attribuito dalla Cia a Mbs, ha influito in negativo.
Nessuno dei due paesi, però, in fondo può fare a meno dell’altro. Gli Stati Uniti hanno nell’Arabia Saudita il principale garante della stabilità in Medio Oriente, nonché uno dei membri più influenti dell’Opec+. La monarchia saudita, da parte sua, non avrebbe la forza, senza l’appoggio americano, di difendersi da un temuto attacco iraniano.
La carta del calcio
Un altro strumento di soft power che Mbs sta utilizzando è lo sport, in particolare il calcio. Ha fatto scalpore, a gennaio, l’acquisto da parte di un club saudita, l’Al Nassr, di Cristiano Ronaldo, con un ingaggio di 200 milioni l’anno e la possibilità, nel caso il paese si aggiudicasse il Mondiale del 2030, di guadagnare un miliardo. La Coppa del Mondo sarebbe sarebbe una vetrina unica per riabilitare l’immagine del principe e del suo paese, appannata dallo scandalo Khashoggi.
Non meno importante, a livello strategico, è la partecipazione della Saudi Bank, la banca nazionale saudita, all’aumento di capitale monstre di Credit Suisse. Saudi Bank ha investito oltre 1,5 miliardi di franchi (circa 1,5 miliardi di euro) nella ricapitalizzazione dell’istituto elvetico, divenendone uno dei maggiori azionisti, con quasi il 10% del capitale. Calcio, finanza e geopolitica: tutte carte che Mbs sta machiavellicamente giocando per rilanciare il suo paese e trasformarlo in una potenza di prim’ordine. Noi occidentali non potremo stare a guardare, perché dall’Arabia Saudita, tra petrolio, stabilità del Medio Oriente, lotta al terrorismo islamico e guerre valutarie, passano anche i nostri destini.
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