Cultura

Che succede se la maggioranza del mondo si imborghesisce

Quartiere residenziale nel sud della California (Getty Images)

I giornali ne hanno parlato poco, ma potrebbe essere iniziata una nuova era: oltre metà del mondo ora appartiene alla classe media, oppure a quella benestante. “Qualcosa di enorme importanza”, dicono alla Brookings Institution di Washington, uno dei think tank più influenti del globo, dove se ne sono usciti con questa scoperta, “che sta accadendo quasi senza che nessuno se ne accorga”. Ma ormai è ufficiale: per la prima volta, a partire dalla nascita della civilizzazione agricola diecimila anni fa, la maggioranza della popolazione non è più povera, o a rischio di diventare povera.

Esulta Steven Pinker, professore di psicologia a Harvard, autore del saggio Enlightenment Now (ne avevamo parlato anche qui su Forbes) in cui aveva spiegato come nel mondo le cose stiano migliorando, e probabilmente continueranno a farlo. L’estrema povertà è diminuita del 75% in 30 anni, dice, e questo fatto “è completamente ignorato dai media e dall’intellighenzia”. Nel suo libro Pinker illustra come le guerre siano sempre più rare, le persone con un titolo di studio sempre di più, l’acqua potabile disponibile in zone sempre più vaste del pianeta, le minoranze siano sempre meno discriminate e così anche le donne. Bill Gates lo ha definito il libro “più stimolante che abbia mai letto”. Le notizie provenienti dal Brookings sembrano confermare questo trend positivo: a partire da settembre il 50% della popolazione mondiale – l’equivalente di 3,8 miliardi di persone – vive in nuclei familiari con sufficiente capacità di spesa da essere considerati “classe media” oppure ricchi”: purtroppo, l’altra metà appartiene a famiglie povere o poverissime. 

Ma il diavolo – come si dice in questi casi – si può nascondere nei dettagli. La definizione di classe media adoperata da Brookings è decisamente ampia: si basa sulla capacità di spesa, e va da 11 undici dollari a 110 dollari al giorno a persona, a parità di potere d’acquisto. Il problema è che il reddito medio non equivale per forza al ceto medio: il primo è un costrutto economico, il secondo è un costrutto sociale, su cui agiscono fattori culturali endogeni, informazioni provenienti dall’esterno, competizione tra classi, percezioni complesse. I ricercatori si sono difesi spiegando che la classificazione di “classe media” era stata sviluppata per la prima volta dall’Oecd nel 2010, e adoperata da allora in altri studi importanti; ammettono che la definizione è precaria ma rintracciano alcuni elementi comuni ai borghesi e piccolo borghesi di tutto il mondo: la disponibilità di denaro per poter acquistare beni durevoli come un motorino, un frigorifero, una lavatrice; la possibilità di indulgere in piccole forme di intrattenimento come il cinema o la sala giochi; la possibilità, anche, di considerare una vacanza, nel breve periodo. Nonché la ragionevole certezza che la propria famiglia sia in grado di sostenere un eventuale shock economico – possa essere una malattia, un aumento improvviso dell’inflazione, la perdita del lavoro – senza precipitare subito nella miseria e nella fame.

Complessivamente, la nozione cruciale che definisce i borghesi in crescita nel mondo è il reddito discrezionale, vale a dire quella parte di reddito disponibile che resta dopo che si sono soddisfatti bisogni primari come, ad esempio, il riempimento dello stomaco, un tetto sotto cui dormire e un vestito da indossare. In poche parole è il denaro che spendiamo in beni di piccolo e grande lusso, nello shopping non essenziale. Le teorie classiche ci dicono che, quando un’economia vede livelli di reddito discrezionale salire, le cose stanno andando bene. In poche parole, sempre più persone stanno conducendo “uno stile di vita”: che non è una cosa che tutti possono permettersi.

Ovviamente non è un concetto scolpito nel marmo, perché viene costantemente assalito non solo dall’inflazione – il nemico numero uno della classe media da quando essa esiste – ma dall’attacco incrociato di marketing e complessi politico-industriali. Sono le loro strategie, e non solo il ragionamento individuale, a definire i limiti del bisogno e del lusso, e a rendere il concetto di benessere e ceto medio altamente teorico. È vero che, ovunque si guardi, il cibo viene classificato come un elemento essenziale nella scala dei bisogni, ma per qualcuno la spesa in ristoranti di lusso, così come il vestiario, definisce più un consumo posizionale, un’affermazione di status piuttosto che la soddisfazione di una necessità. Ma si potrebbe parlare anche dell’accesso all’istruzione, dell’assistenza sanitaria, del trasporto pubblico come di elementi essenziali che non vengono inclusi nel range di spesa del ceto medio utilizzata da Brookings.

Per alcuni commentatori, questa è l’ideologia della globalizzazione per come siamo stati abituati a conoscerla negli ultimi 25-30 anni: tutti, o quasi, possono permettersi un telefonino, un televisore e un Big Mac, sempre meno quelli che muoiono di fame per le strade, e quindi cerchiamo di non lamentarci. Qualcuno potrebbe spingersi anche oltre, sostenendo che questo metro di valutazione è funzionale all’agenda politica degli “ottimisti per mestiere”, come Pinker: usare i numeri complessivamente positivi  per nascondere i problemi sottostanti alla crescita – che nessuno nega – dell’economia globale, a cominciare da quello cruciale: le disuguaglianze crescenti.

Questo è anche il tema portante dell’opera di Branko Milanovic, un economista diventato superstar, nel 2016, dopo aver pubblicato il celeberrimo “grafico dell’elefante”. Cosa mostra? Tra il 1988 e il 2008 quelli che si sono arricchiti di più con la globalizzazione sono stati i poveri e i borghesi dei paesi in via di sviluppo e chi era già ricco, mentre la classe media occidentale è rimasta più o meno là dove era già prima. Allo stesso modo anche i più poveri tra i poveri (gli africani subsahariani, ad esempio). È un grafico che spiega più di mille parole il voto italiano degli ultimi due anni e mezzo: Trump, la Brexit, il crollo delle socialdemocrazie in Europa; il voto italiano, persino.

Il cambio di paradigma globale fa sorridere l’Asia e ingrugnire l’Occidente. Non a caso, uno dei prodotti culturali più significativi del momento è il film Crazy Rich Asians diretto da Jon M. Chu, ribattezzato da noi Crazy & Rich, che appena uscito in America ha massacrato la concorrenza: descrive l’esplosione clamorosa di un esclusivo sottogruppo dell’élite globale, i milionari asiatici, che stanno aumentando al ritmo doppio rispetto agli Stati Uniti – dove gli ultraricchi sono già tantissimi – o all’Europa. Ma è dall’Asia che arriva la quota maggiore della nuova borghesia mondiale: 9 rappresentanti del ceto medio su 10, secondo Brookings, entro il 2030 verranno da lì. Nel mondo la classe media avrà per quella data 1,7 miliardi di esponenti in più, rispetto ai quasi quattro miliardi di oggi. Mentre i poveri saranno diminuiti di 900 unità.

Questo pone due ordini di problemi: primo, capire come soddisfare i bisogni di una classe media emergente che avrà caratteristiche culturali, politiche e sociali molto diverse dalle nostre – nonostante la mondializzazione dei consumi già affermata da decenni. Le aziende occidentali dovranno adattarsi sempre di più a produrre oggetti e servizi che potrebbero apparire alieni rispetto alle società in cui nascono: proprio come i cinesi e gli indiani, per decenni, hanno soddisfatto i bisogni di consumatori lontani anni luce dal loro stile di vita. Il secondo problema, più cogente, è capire dove la classe media aumenterà e dove, invece, tenderà a restringersi sempre di più. Poiché c’è una chiara relazione tra il fato della classe media e la felicità collettiva. I sondaggi Gallup hanno mostrato chiaramente come, durante e dopo la crisi economica, sempre meno americani si sentissero appartenenti a quella classe media definita dalla metodologia dell’Oecd; capace, col suo reddito discrezionale, di permettersi un certo “stile di vita”, definito per lungo tempo dalla cultura nazionale e occidentale. Da qui, l’inevitabile legame tra la nozione che la classe media ha di sé stessa e le scelte elettorali.

“La classe media mette pressione ai governi affinché facciano sempre meglio”, si legge nella ricerca di Brookings. “Si affida ad essi per alloggi a buon mercato, per l’istruzione, per un servizio sanitario gratuito. Conta sulle reti di salvataggio pubbliche per essere salvata nei momenti di malattia, disoccupazione e vecchiaia. Ma resiste ai tentativi dei governi di imporle delle tasse per far quadrare i conti. Questo complica le politiche delle società governate dalla classe media, che così spaziano dalle democrazie liberali alle autocrazie. Molte nazioni avanzate dal ceto medio oggi stanno avendo difficoltà nel trovare una combinazione di politiche che possano soddisfare la maggioranza della classe media”.

Più che raccontarci cosa sia e cosa stia diventando il ceto medio nel mondo, la ricerca di Brookings sottolinea l’innegabile diminuzione della quota di umanità a rischio povertà assoluta: un traguardo merito soprattutto – bisogna ammettere – di Paesi non esattamente democratici, come Cina e India. Ciò non toglie il fatto che una definizione globale di cosa sia la classe media, di quali aspirazione abbia diritto ad avere, di cosa possa unire i borghesi di tutto il mondo è destinata a restare, probabilmente, insoluta.

Vuoi ricevere le notizie di Forbes direttamente nel tuo Inbox? Iscriviti alla nostra newsletter!

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Per altri contenuti iscriviti alla newsletter di Forbes.it CLICCANDO QUI .

Forbes.it è anche su WhatsApp: puoi iscriverti al canale CLICCANDO QUI .