Generali
Business

La grande Generali, lo strappo di Caltagirone e i sei personaggi in cerca d’identità

Et voilà. Andiamo avanti così. Con qualche rancore. Che traspare dal volto di bon vivant di Philippe Donnet, il ceo delle Generali, che è non solo, in patria, uno dei principali produttori di legno per le botti in cui pigiare i preziosi Bordeaux e Bourgogne, ma anche un ex rugbista che non si è mai tirato indietro nelle touches contro i piloni più arcigni. Chissà se riuscirà a spuntarla contro l’opposizione esplicita di Francesco Gaetano Caltagirone, l’azionista numero due della compagnia. O a compiacere gli altri privati: da mister Luxottica, Leonardo Del Vecchio, ai Benetton, in cerca di rilancio dopo le disavventure autostradali. Chissà, in altri termini, se sarà sufficiente l’appoggio del management di Mediobanca, garantito da Alberto Nagel, per resistere in groppa al Leone.

Domanda futile fino a poche stagioni fa, quando i dirigenti dell’istituto di piazzetta Cuccia, pur in possesso di una quota non superiore al 15%, avevano il controllo quasi assoluto sulle scelte del gruppo di Trieste. Ma stavolta è diverso: forse per la prima volta nella sua storia, Mediobanca deve rispondere a un socio di maggioranza, cioè Del Vecchio, forse alleato o forse no al “nemico” Caltagirone. E la partita attorno al player finanziario più importante del Paese si complica. Come è inevitabile, perché attorno al polo Mediobanca/Generali – e, magari, Unicredit – è destinata a giocarsi una parte rilevante delle sorti della finanza italiana. E di almeno sei personaggi in cerca di un’identità negli equilibri post-pandemia. Ma procediamo con ordine, per gustare i vari passaggi del feuilleton.

L’assemblea di Generali del 29 aprile

La situazione precipita, a sorpresa, alla vigilia dell’assemblea del 29 aprile, chiamata ad approvare il bilancio. Fulmine a ciel sereno: quella mattina Francesco Manacorda di Repubblica (non nuovo ad anticipazioni salate sulle Generali, specie ai tempi in cui presidente era Cesare Geronzi) fa uno scoop. Caltagirone, vicepresidente e grande azionista, non parteciperà all’assemblea con il suo pacchetto, pari al 5,64% del capitale. Il costruttore romano parteciperà però, in videoconferenza, al successivo cda. Con propositi battaglieri, perché presto emergono i motivi (almeno una parte) del suo malcontento: a Donnet viene contestato l’acquisto del 24% della Cattolica Assicurazioni (operazione non condivisa nemmeno da Del Vecchio), le manovre per entrare sul mercato russo (stavolta senza l’appoggio di Mediobanca) e il progetto di sbarcare in Malesia, operazione approvata solo da 8 consiglieri su 13.

Possono bastare queste “pecche” a far saltare un amministratore che, dal 2016 al 2020, ha erogato più di 7 miliardi di dividendi, assicurato un risultato operativo in crescita da 4,8 a 5,2 miliardi, una solvency passata dal 177 al 224% e un total return del 29%, in linea con quello di Axa? Di sicuro non giustificano un licenziamento in tronco, come quello inflitto a suo tempo a Giovanni Perissinotto, folgorato da un’intervista di Del Vecchio. Anche perché la mossa di Caltagirone vuol essere a scoppio ritardato. Solo tra un anno, al momento di scegliere il nuovo cda, si giocheranno le carte decisive. Per ora l’avvertimento basta e avanza. E così l’assemblea di giovedì 29 aprile scorre liscia come l’olio: i presenti approvano il bilancio con una maggioranza bulgara del 99,8%, dopo che Donnet, in apertura, li ha informati di essere già al lavoro al nuovo piano industriale, in continuità col precedente.

Il piano di Donnet

“Partiamo – dice Donnet – da basi molto solide, perché Generali 2021 è stato lungimirante. Il nuovo piano 2022-2024 sarà in continuità con l’attuale e avrà come obiettivo, dal punto di vista strategico, la definizione di obiettivi ambiziosi di crescita e il rafforzamento della capacità del gruppo di generare valore e risultati sostenibili nel tempo.

Vaste programme, direbbe De Gaulle. Da cui si deduce che Donnet, pioniere dello smart working che preferisce vivere a Parigi, non intende affatto congedarsi dagli uffici di City Life. Nonostante Caltagirone, in videoconferenza, abbia caricato a testa bassa nel consiglio pomeridiano, contestando i tempi assai stretti per esaminare il dossier Cattolica e l’acquisizione da 300 milioni in Malesia. Con l’appoggio, in questo caso, di Romolo Bardin, che in cda rappresenta la Delfin di Leonardo Del Vecchio.

La “grande Generali”

Il primo round è finito qui, senza ramoscelli d’olivo, ma neanche colpi sotto la cintura che senz’altro prima o poi arriveranno. Perché in gioco non ci sono solo interessi distanti, non sempre conciliabili, ma sullo sfondo c’è una profonda distanza sulla governance: dal ruolo dei manager ai poteri degli azionisti e del consiglio.

Si parte infatti da presupposti diversi. Per Mediobanca, come previsto dallo statuto, la lista deve essere espressione del cda, formato da personaggi, indipendenti e non, graditi al mercato, selezionati dal presidente, con la nomina di un consulente che aiuti a identificare i profili e un board che valuti le proposte. Una gabbia rigida, a protezione dell’interesse di tutti i soci contro gli eventuali conflitti di interesse (frequenti in passato, a giudicare dalle accuse di Mario Greco). Ma su questa linea, che limita fortemente la capacità di intervento dei soci, il consenso è assai tiepido.

I motivi? Non è certo con una logica del genere che si costruisce la “grande Generali” capace di riportare la capitalizzazione ai vertici del sistema europeo, sorpassando di nuovo Axa, all’inseguimento di Allianz. È il sogno di Leonardo Del Vecchio, azionista al 4,82% e ormai vicino al 20 percento in Mediobanca, che, mattoncino dopo mattoncino, dà la sensazione di voler mettere assieme le due società. Magari in combinazione con Unicredit, dove, su impulso del re degli occhiali, è sbarcato Mario Orcel, grande banchiere d’affari che sembra fatto apposta per costruire una corazzata in grado di competere almeno a livello europeo.

Il pontiere Pellicioli

È dubbio che su questo programma il patron di Essilor Luxottica sia in sintonia con Caltagirone, espressione di una gestione di sostanza ma di basso profilo, che da anni avanza con pazienza certosina sul fronte di Trieste, tra l’altro una cash cow preziosa per chi opera nelle grandi infrastrutture o nell’immobiliare. Ma su un punto la sintonia è sicura: il potere dell’azionista è sacro. Il manager, quando è necessario, deve chinare il capo. Come è successo in occasione della possibile cessione di Banca Generali a Mediobanca. Nagel, grande sostenitore di Donnet, ha dovuto abbozzare.

Insomma, un quadro contrastato, in cui spicca la figura di pontiere di Lorenzo Pellicioli, custode della quota di Dea, vicino a Nagel ma capace di mediare. E non manca la new entry: il gruppo Benetton, 3,97% del capitale, che fino a ieri ha preferito stare in una posizione defilata ma che oggi, liquidate le disavventure in autostrada, rivendica un posto in consiglio  per ripulire il blasone di casa.  

Insomma, i protagonisti non mancano. E le idee nemmeno. E magari, chissà, stavolta gli azionisti metteranno i quattrini per far volare i Leone.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Per altri contenuti iscriviti alla newsletter di Forbes.it CLICCANDO QUI .

Forbes.it è anche su WhatsApp: puoi iscriverti al canale CLICCANDO QUI .