Il Giappone è stato uno dei primi a crederci davvero, e così si è beccato gli insulti di Elon Musk. Ma del resto non è una sorpresa: per il bellicoso e ultra competitivo Elon sono “incredibilmente stupide” molte idee che minacciano di fargli concorrenza. Stiamo parlando, in questo caso, di tecnologie da installare nel cofano e sotto l’abitacolo delle macchine. L’adagio ripetuto allo sfinimento sostiene che i motori elettrici costituiscano l’unico futuro dell’automobilismo. Ma i dirigenti Toyota, il più grande produttore di veicoli al mondo – e se per questo anche quelli della coreana Hyundai – non sono poi così sicuri. È da diversi anni ormai che hanno puntato tantissimo su congegni alternativi. Si chiamano celle a combustibile, e generano corrente da una reazione chimica tra ossigeno e idrogeno. L’ossigeno proviene dall’aria, mentre l’idrogeno, la vera star di quest’operazione, è opportunamente compresso e immagazzinato in un serbatoio a bordo dell’auto. Se la macchina rilascia nell’ambiente qualcosa, è soltanto il prodotto della combinazione tra idrogeno e ossigeno, vale a dire: acqua. Quindi, nessun inquinamento. Già quasi quattromila auto a idrogeno sono state vendute in Giappone nel 2019. Il piano oggi è salire a quota 100mila entro il 2030. E, dunque, Elon Musk: che cosa c’è di incredibilmente stupido?
La domanda diventa ancora più intrigante quando si scopre che il progetto del Giappone va ben oltre l’industria dell’auto. I politici e il mondo corporate hanno capito da parecchio tempo che l’idrogeno è l’unica speranza di pulire l’economia del Sol Levante. Quest’obiettivo è stato annunciato formalmente l’anno scorso: zero emissioni nette (di gas serra) entro il 2050. Ma perché l’idrogeno? All’inizio, per abbattere la dipendenza dai combustibili fossili, il Giappone ha investito moltissimo nell’energia nucleare. Nel 2011 però c’è stata la tragedia di Fukushima, un trauma che ha praticamente chiuso quell’industria. Non restavano che le rinnovabili. Ma ci vuole il paesaggio giusto, e il Giappone non ce l’ha: montuoso, ripido, densamente popolato, non va tanto bene né per l’eolico né per i pannelli solari. Ed ecco che entra in scena definitivamente l’idrogeno. Una specie di Santo Graal di cui in realtà nel mondo si parla da decenni.
Questo combustibile soffre un pochino della sindrome del talento mancato (o della rivoluzione abortita). Già negli anni Cinquanta, e poi nei Settanta, con la crisi del petrolio, e negli anni Novanta – quando il clima ha iniziato a essere politicamente rilevante – si è parlato con entusiasmo di sostituire gli idrocarburi con l’idrogeno. Non è successo. Di sicuro c’erano resistenze enormi, gruppi d’interesse potenti, che non avevano alcuna voglia di rimpiazzare l’intera struttura planetaria dei combustibili fossili. E poi c’era un altro fatto molto concreto: una nuova economia basata in parte sull’idrogeno come combustibile aveva complessità e costi giganteschi. Che sono presenti tutt’oggi. Ma anno dopo anno, investimento dopo investimento, l’impresa non sembra più così impossibile. Ci sono però due grossi problemi. Il primo è che la stragrande maggioranza dell’idrogeno è prodotto con combustibili fossili – e ogni anno crea emissioni serra pari a quelle di Indonesia e Regno Unito messe insieme. Il secondo problema è ancora il costo. Ed è qui che torna utile l’esempio del Giappone.
Il Giappone si sta rifornendo del tipo più economico di idrogeno, quello che però causa danni ambientali notevoli. In pratica, sta appaltando l’inquinamento all’Australia; a circa 120 km da Melbourne, un consorzio nippo-australiano ha cominciato a produrre idrogeno bruciando lignite, cioè carbone, il combustibile più sporco che c’è. L’idrogeno viene poi liquefatto e trasportato su una nave costruita appositamente, che viaggia per novemila chilometri dalla costa occidentale dell’Australia fino a Kobe nel cuore del Giappone. In questa città l’idrogeno mette in funzione una centrale elettrica che fornisce energia a diversi isolati. Ma qual è lo scopo ultimo di questo progetto? E chi ci guadagna? Ci guadagna il Giappone che piano piano si costruisce un’alternativa ai combustibili fossili, da cui dipende tantissimo ed è costretto a importare quasi per intero. Ci guadagna l’Australia che ha per le mani un nuovo carburante da esportare in tutta l’Asia. Ma non ci guadagna per nulla l’ambiente, visto che l’idrogeno in questo caso è di tipo ‘marrone’, economico però sporco. Il vantaggio per tutti, ed è questo l’obiettivo di lungo termine, è iniziare a testare una catena del valore e una struttura dell’economia basate sull’idrogeno. A pulirlo ci si penserà in un secondo tempo. Un dirigente di Kawasaki spiega: collegheremo i siti di produzione di energia ai consumatori finali, e così facendo daremo vita a una “strada dell’idrogeno”. L’idea è che questa catena di approvvigionamento si diffonda in tutta l’Asia, come è successo negli anni Settanta per il gas naturale liquefatto, importato a Taiwan, in Corea del Sud, in Cina, in Giappone.
Ovviamente gli ambientalisti non sono affatto contenti; e hanno ragione: se davvero il mondo vuole tener fede agli accordi di Parigi, cioè limitare a soli due gradi centigradi l’aumento della temperatura globale, bisogna cominciare a produrre e consumare idrogeno pulito. Il problema è che questo carburante è ancora molto lontano dall’essere sostenibile dal punto di vista economico. Vediamo i costi: per l’idrogeno marrone e grigio, quindi sporco perché ottenuto da fonti fossili (carbone o gas naturali), il prezzo varia molto a seconda delle circostanze, ma in media si aggira intorno a 1,5-1 dollaro al chilogrammo. Secondo Luca Franza, capo del programma su clima ed energia dello Iai (Istituto affari internazionali), circa un euro al chilo è il prezzo che rende l’idrogeno competitivo rispetto ad altri carburanti. Ma quanto costa oggi produrlo in modo pulito? C’è quello di tipo blu, che viene anch’esso generato bruciando fossile, ma la Co2 rilasciata nell’aria è catturata e stoccata nel sottosuolo. È una tecnica che si sta diffondendo. Equinor, colosso dell’energia norvegese, lo sta facendo in Inghilterra, dove l’anno scorso ha installato la più grande fabbrica di idrogeno blu al mondo, che oggi alimenta due centrali elettriche. Ed è anche quello che vorrebbero fare in futuro Australia e Giappone: acciuffare la Co2 e depositarla sottoterra. È chiaro però che serve un’attrezzatura supplementare e questo fa lievitare i costi. Oggi il prezzo dell’idrogeno blu si muove (in media) tra 1,5 e 3,5 dollari al chilo. Il problema è che gli strumenti di cattura e stoccaggio di Co2 non sono efficienti e qualcosa scappa sempre.
E poi c’è un’altra questione davvero critica: ogni tonnellata di idrogeno richiede, per esser prodotta, circa due tonnellate di gas naturale, che tra l’altro come combustibile contiene più del triplo di energia per metro cubo. Quindi, per tornare alla domanda di Elon Musk, forse sì, ha ragione lui: tutto questo è abbastanza stupido. Forse bisognerebbe lasciar perdere l’idrogeno blu e correre spediti verso quello verde. Che è la vera svolta, l’Eldorado totalmente sostenibile. Si produce attraverso l’elettrolisi dell’acqua alimentata con energia elettrica da fonti rinnovabili, eolico e solare. Nessuno scarto di Co2 nell’atmosfera. L’unico problema è il costo: in media dai 3 ai 7,5 dollari al chilogrammo, secondo stime di Bank of America. Quindi ancora troppo alto. Siamo spacciati? “No, non direi proprio, anzi siamo messi bene”. È ottimista Luca Franza. Spiega che ormai si è messa in moto una vastissima collaborazione tra tanti stakeholder diversi a livello globale: governi, banche, grandi aziende, grandi gestori di servizi, alta finanza. Il primo obiettivo comune è investire per far crescere la tecnologia e abbattere i costi. “Soprattutto, non ci sono altre soluzioni oltre l’idrogeno”. E questo è certamente vero.
Le rinnovabili possono condurci solo fino a un certo punto. Efficaci nel produrre elettricità, molto meno per sostenere altri comparti dell’economia, come l’aviazione, il trasporto pesante su lunghe distanze (navi, treni, camion), l’industria e tanti processi nell’agricoltura. In questi casi valide alternative al combustibile fossile ancora non esistono. E se non si vuole inquinare, l’idrogeno verde sembra l’unica arma promettente. La cosa buona è che i costi sembra possano scendere, anche piuttosto rapidamente. Ricavare idrogeno da fonti rinnovabili, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, potrebbe costare il 30% in meno entro il 2030. Ha molta fiducia anche la società di analisi Bloomberg New Energy Finance (Bnef): entro il 2050 il prezzo dell’idrogeno verde dovrebbe aggirarsi tra 0,7 e 1,6 dollari al chilo (più o meno quanto costa oggi l’idrogeno grigio). Mestiere rischioso quello delle previsioni, ma queste non sembrano del tutto campate in aria. Esempio: un dirigente di Bnef fa notare che la tecnologia per l’elettrolisi dell’acqua costa già il 40% in meno rispetto a cinque anni fa. E a ciò si aggiunge il calo fantastico del prezzo dell’energia rinnovabile – quella solare è scesa dell’85% nell’ultima decade – che a sua volta dovrebbe far crollare il costo dell’idrogeno pulito. Insomma, i presupposti sembrano solidi: tanto vale provarci sul serio. E infatti molti Paesi si stanno muovendo. C’è anche un’affannosa rincorsa di quelli legati a gas e petrolio. L’Arabia Saudita ha un progetto da cinque miliardi di dollari per esportare idrogeno, mentre la Russia ne vuole spedire cinque milioni di tonnellate in Europa entro il 2030. E cosa fa il nostro Continente? Anche da noi – che abbiamo promesso di raggiungere zero emissioni nette nel 2050 – l’idrogeno verde è considerato un pilastro della transizione energetica.
A metà secolo, dice l’Unione Europea, potrebbe soddisfare il 24% della domanda d’energia del pianeta; l’obiettivo quindi è produrne sul nostro territorio almeno 10 milioni di tonnellate entro il 2030, e per far questo bisogna installare 40 gigawatt di elettrolizzatori a idrogeno rinnovabile. E chi finanzia tutto questo bendidìo? In teoria il Recovery Fund e poi i bilanci dei singoli Stati. “È un piano ambizioso, ma non impossibile”, spiega ancora Franza. Germania, Olanda, Portogallo, Francia Spagna – e recentemente anche l’Italia – hanno pubblicato le proprie strategie riguardo l’idrogeno. L’Italia mette sul piatto dieci miliardi di euro per avere in funzione cinque gigawatt di elettrolizzatori nel 2030; anno in cui, se tutto va bene, il 2% della domanda energetica italiana sarà coperta dall’idrogeno pulito. Tante aziende, in tutta Europa, si sono buttate in quest’avventura. Enel lavora sull’idrogeno verde; Eni, che probabilmente ha molto gas naturale da smaltire, spinge per l’idrogeno blu; punta sul verde anche il gigante dell’energia spagnolo Iberdrola: “Abbiamo molti progetti di questo tipo in giro per il mondo”, dice Lorenzo Costantini, country manager per l’Italia, “in particolare quello dell’impresa di fertilizzanti Fertiberia: 800 megawatt di elettrolizzatori per produrre idrogeno pulito fra Puertellano e Palos de la Frontera, di cui 20 mw operativi a fine anno; e poi una flotta di bus a idrogeno verde per le strade di Barcellona, anche loro in moto per l’ultima parte del 2021”.
Ottime notizie quindi; eppure, insieme all’entusiasmo, si respira anche una certa cautela, se si ascoltano le voci di chi opera in comparti diversi. Ad esempio l’industria pesante. C’è un consorzio in Svezia che fa cose molto innovative nell’acciaio, uno di quei settori dell’economia terribilmente inquinanti, che quindi deve per forza cambiare. Nella città costiera di Lulea l’obiettivo è produrne un milione di tonnellate l’anno con l’idrogeno. È un progetto pilota che partirà dal 2026. Sono coinvolte due società svedesi, il colosso dell’acciaio Ssab e la compagnia mineraria Lkab. Che già avvertono: ogni tonnellata prodotta costerà dal 20 al 30% in più; poi c’è bisogno di minerali di alta qualità, e questi depositi sono rari. Ma la questione più ostica forse è far crescere in modo davvero drastico e rapido la disponibilità di fonti rinnovabili – eolico e solare – necessarie per l’elettrolisi e insieme richiestissime per altri scopi. Qualche numero per farsi un’idea: se si dovesse alimentare a idrogeno la produzione di acciaio del Giappone, quel paese dovrebbe raddoppiare subito il proprio stock di energia rinnovabile; mentre Lkab, per pulire tutto il proprio acciaio, avrebbe bisogno di un terzo delle fonti rinnovabili svedesi. Un suo dirigente racconta: “Quando abbiamo annunciato questo nuovo progetto ci hanno presi per matti. Forse avevano ragione. Ma l’idea di ciò che è possibile sta cambiando”.
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