Ogni anno circa 3mila trofei di caccia di specie protette a livello internazionale entrano nell’Unione europea: leoni, elefanti, zebre, orsi polari e tanti altri animali minacciati o a rischio di estinzione. Una cifra che fa dell’Ue il secondo importatore al mondo, dopo gli Stati Uniti. A denunciarlo è il rapporto I numeri della caccia al trofeo: il ruolo dell’Unione europea nella caccia al trofeo a livello mondiale, pubblicato da Humane society international/Europe. Tra il 2014 e il 2018, accusa il documento, le importazioni sono state quasi 15mila e hanno riguardato 73 specie protette. E sono aumentate quasi del 40% tra l’inizio e la fine del periodo esaminato.
Per contrastare il fenomeno, Humane society international/Europe (Hsi) ha lanciato una campagna internazionale per sensibilizzare l’opinione pubblica e fare pressione sui governi europei perché vietino l’importazione, l’esportazione e la ri-esportazione dei trofei ricavati da specie protette. L’iniziativa, si legge nel comunicato di Hsi, “mette in luce la brutale realtà di questa pratica: impallinare, imbalsamare, imballare e consegnare trofei di caccia di animali protetti”.
La lotta alla caccia ai trofei
Humane society international è la divisione internazionale della Humane society of the United States. Fondata nel 1991, si definisce, tramite il suo sito ufficiale, un’organizzazione che “lavora in tutto il mondo per promuovere il legame tra esseri umani e animali, salvare e proteggere cani e gatti, migliorare il benessere degli animali allevati, proteggere la fauna selvatica, promuovere la ricerca senza animali, rispondere alle catastrofi naturali e opporsi a tutte le forme di crudeltà sugli animali”. Ha sede in America e attività in circa 50 paesi.
La nuova campagna, che lancia l’hashtag #NotInMyWorld (“Non nel mio mondo”), “vuole informare i cittadini italiani che, ancora oggi, le zampe di elefante possono essere trasformate in vasi da fiore e posacenere, i colli di giraffa in lampade da terra e gli orsi polari in scendiletto. Tutto ciò, incredibilmente, in modo legale”.
Secondo Hsi, anche se le uccisioni avvengono perlopiù in Africa, Nord America e Russia, “ciò che interessa ai cacciatori è poter spedire i loro trofei a casa propria”. Un intervento legislativo dei paesi Ue per vietare l’importazione, dunque, sarebbe un disincentivo alla pratica.
In Italia
Tra il 2014 e il 2020, l’Italia ha importato 437 trofei provenienti da specie protette elencate nella Convenzione sul commercio internazionale delle specie di flora e fauna selvatiche minacciate di estinzione (Cites). È il primo paese Ue per importazioni di trofei di ippopotami, il quarto per trofei di leoni africani di origine selvatica e il quinto per trofei di elefanti africani.
“Gli italiani non sono nella posizione di fermare la raccapricciante uccisione di animali in altri paesi”, ha dichiarato la direttrice per l’Italia di Humane society international/Europe, Martina Pluda. “Possiamo tuttavia scegliere di chiudere le nostre porte a questi trofei e chiedere alla politica di agire. Con #NotInMyWorld, esaminiamo il problema della caccia al trofeo da un’angolazione diversa da quella abituale: non ci concentriamo su ciò che sta accadendo in altri paesi, ma dimostriamo che l’Unione europea contribuisce al problema. È eclatante il contrasto tra l’uccisione e l’importazione di animali protetti a livello internazionale e una società moderna in cui la conservazione delle specie selvatiche e la protezione delle biodiversità dovrebbero essere in cima all’agenda politica. Se l’Italia e l’Ue sono parte del problema, potranno essere però anche parte della soluzione, se fermeranno le importazioni e le esportazioni di trofei”.
La petizione
Su questo tema, Hsi/Europe ha promosso quindi una petizione indirizzata al governo italiano. L’esecutivo, sostiene l’organizzazione, “non può più chiudere gli occhi davanti a questa problematica. La caccia al trofeo non ha posto nella società moderna. L’uccisione di animali selvatici da parte di una piccola cerchia di cacciatori per ottenere trofei ha un impatto negativo sulle popolazioni di queste specie e sulla biodiversità”.
Sono infatti gli animali in età riproduttiva e nel pieno delle forze a essere oggetto dei cacciatori di trofei, a causa delle loro caratteristiche: la criniera scura, le zanne lunghe, le dimensioni dei palchi o delle corna. Se vengono cacciati animali che svolgono funzioni di guida e di protezione, le conseguenze per la mandria o per il branco possono essere molto negative.
L’iniziativa è in linea con l’opinione di gran parte dei cittadini. Un sondaggio condotto a marzo 2021 ha riscontrato che l’86% degli italiani è contrario alla caccia ai trofei, dato peraltro simile alla media dell’Unione europea. Il 74% è favorevole a un divieto totale di esportazione e importazione di trofei di animali morti.
La campagna
La campagna di sensibilizzazione è stata sviluppata, a livello di comunicazione, assieme all’agenzia austriaca offroad communications. L’immagine principale è un’animazione 3D di un elefante e di un rinoceronte, avvolti in carta da pacchi. Lo slogan è “Impallinati. Imbalsamati. Imballati. In consegna?”.
“Le immagini mostrano la drammatica realtà: cadaveri di animali in via di estinzione spediti in tutto il mondo per profitto e intrattenimento”, ha affermato Benjamin Remhof, responsabile del design di offroad communications. “Insieme all’hashtag della campagna #NotInMyWorld, lanciamo un messaggio forte e inequivocabile”.
L’economia della caccia ai trofei
Hsi afferma anche che la caccia ai trofei “favorisce le disuguaglianze geopolitiche e non fornisce significativi vantaggi socioeconomici”. Nega, dunque, una delle argomentazioni più diffuse a favore della pratica, ovvero i presunti benefici per l’economia del luogo.
“Rispetto alla caccia al trofeo, il turismo di osservazione della fauna selvatica genera molti più introiti da poter destinare alla conservazione”, si legge nel rapporto di Hsi. “Fornisce inoltre maggiori opportunità di lavoro alla popolazione locale”. Se è vero che un cacciatore può arrivare a pagare 40mila dollari per sparare a un elefante maschio, infatti, lo stesso animale vivo può generare ogni anno 23mila dollari tramite il turismo fotografico. Nell’arco della sua vita, può creare quindi un valore potenziale di 1,6 milioni di dollari, ovvero 40 volte quanto pagato dal cacciatore.
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