Articolo tratto dal numero di dicembre 2021 di Forbes Italia. Abbonati!
“Il settore industriale è responsabile del 30% delle emissioni di anidride carbonica a livello globale: un processo di decarbonizzazione che non includa le imprese è impensabile”. Massimiliano Mannino, country manager di Shell Energy Italia, si occupa proprio di quello che definisce “un aspetto della transizione energetica di cui non si parla abbastanza”. Eppure, dice Mannino, “le aziende private hanno iniziato a riflettere su questo tema prima ancora che la politica lo affrontasse sul serio. Anche perché è nel loro interesse. Le società che puntano sulla sostenibilità sono dinamiche, innovano. E sul mercato vince chi intercetta in anticipo le esigenze di investitori e clienti”.
Ad affermarlo è anche uno studio della Scuola di management del Politecnico di Milano e della società di consulenza finanziaria Banor Sim. La ricerca ha considerato le aziende dello Stoxx Europe 600, indice che comprende 600 tra le società europee a maggiore capitalizzazione di mercato, e ha analizzato la relazione tra l’andamento del titolo e il rating esg (enviromental, social and corporate governance, una valutazione dell’attenzione di un’impresa ai temi ambientali e sociali). I risultati nel periodo 2012-20 sono stati migliori per le società con rating alto (+86,1%) rispetto a quelle della fascia media (+80,5%) o bassa (+70,9%). “Investire in sostenibilità ed essere innovativi conviene per molte ragioni”, spiega Mannino. “Si genera un grande senso di appartenenza nel proprio staff. Si diventa più resistenti ai fenomeni avversi. E si diventa più attrattivi per tutti: dal mercato agli utilizzatori finali”.
Gli investimenti in sostenibilità, tuttavia, costringono le aziende a ripensare le loro attività. Cambiamenti che si ripercuotono anche sulle operazioni di una compagnia energetica come la stessa Shell. “Lavorare con un cliente, per noi, significa lavorare fianco a fianco su tutto ciò che è necessario per adottare una soluzione. In altre parole, nel nostro settore non è più possibile distinguere in modo netto tra chi produce energia, chi la vende e chi si occupa di sviluppare nuove tecnologie”.
Una società attiva su scala globale nel campo dell’energia si muove oggi in un panorama molto frammentato. E non solo perché, come hanno evidenziato l’ultimo G20 di Roma e la Cop26 di Glasgow, esistono ancora grandi distanze politiche sui temi del clima e della tutela dell’ambiente. “In ambito industriale, le differenze sono ancora più nette rispetto all’ambito geopolitico”, commenta Mannino. “Non si ragiona per Paesi, ma per singoli gruppi e aziende. Ciascuno fissa per sé obiettivi o priorità diverse. Ed è inevitabile: sebbene tutti debbano operare all’interno delle stesse cornici – dagli accordi di Parigi a quelli di Glasgow -, il sentiero da seguire non può essere lo stesso per tutte le imprese”.
In un quadro così complesso, Shell ha fissato linee guida riassunte nella formula Avoid, reduce, compensate: ‘Evitare, ridurre, compensare’. “È chiaro che l’ideale sarebbe non emettere, ed esistono già strumenti per riuscirci. Penso, per esempio, all’installazione di pannelli solari negli stabilimenti delle aziende. Quando è impossibile azzerare le emissioni, si può cercare di ridurle, per esempio con il passaggio dagli idrocarburi alle rinnovabili. Uno strumento sempre più popolare tra le imprese, sul quale puntiamo molto, è quello dei corporate ppa (power purchase agreement, accordi per l’acquisto di energia): patti di medio-lungo termine tra un produttore di energia elettrica e un’azienda consumatrice, a condizioni vantaggiose. Contratti di questo genere, proprio perché sono validi per anni, sono anche, per l’impresa, una protezione dalla volatilità del mercato. Un fenomeno che il settore dell’energia sta vivendo proprio in questo periodo”.
La terza via è quella della compensazione: chi emette – e non può evitare o ridurre le proprie emissioni – può finanziare progetti per la cattura, lo stoccaggio o l’utilizzo dell’anidride carbonica nell’atmosfera. Una soluzione sostenuta oggi anche da alcune tra le persone più ricche del mondo. Il fondatore di Microsoft, Bill Gates, si è definito “forse il più grande finanziatore di tecnologie per la cattura dell’anidride carbonica nell’aria”. Quello di Tesla, Elon Musk, ha finanziato un concorso che mette in palio 100 milioni di dollari per le migliori tecnologie di cattura del carbonio.
“La scelta di percorrere l’una o l’altra strada, o più di una insieme, è sempre subordinata a un altro fattore: quali strumenti e tecnologie sono disponibili in un certo momento”, spiega Mannino. Un principio che vale soprattutto quando si affronta il problema dei cosiddetti settori hard to abate: industrie come acciaio, chimica, ceramica, vetro, carta e cemento, ad alto consumo di energia e alte emissioni di Co2, che, per loro natura, sono molto difficili da decarbonizzare. “Già oggi esistono strumenti che possono ridurre l’impatto di questi settori”, afferma. “Bisogna però comprendere che la decarbonizzazione dovrà avvenire con una molteplicità di approcci, diverse tecnologie, diverse tempistiche. Oggi l’Italia consuma tra i 70 e i 75 miliardi di metri cubi di gas all’anno: il percorso verso altre fonti e la scelta delle tecnologie – dall’elettrificazione all’uso del biogas, dalla cattura e sequestro del carbonio all’idrogeno – devono essere guidati dal pragmatismo”.
La via per completare la trasformazione verde dell’industria, secondo il country manager di Shell Energy Italia, è quella delle collaborazioni. “Non pensiamo solo a rendere più sostenibili le nostre operazioni. Una società come Shell deve lavorare assieme ai suoi partner su tutta la catena di fornitura e accompagnarli nei processi necessari, per esempio, per passare dagli idrocarburi all’idrogeno. Servono investimenti non solo di denaro, ma anche di idee. E deve esserci dialogo con i regolatori. Una delle funzioni di una energy company è proprio questa: costruire la coalizione più ampia possibile”.
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