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Dalle multinazionali, alle grandi banche: quel pezzo di Francia (e di Italia) che non vuole mollare la Russia

“Renault, Auchan, Leroy Merlin e altri devono smettere di sponsorizzare la macchina da guerra di Putin”. L’attacco frontale alle imprese francesi è arrivato dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky durante un video messaggio trasmesso all’Assemblea Nazionale di Parigi mercoledì scorso. Se per Zelensky “le vite umane sono più importanti dei profitti”, per il mondo degli affari, non solo francese, le cose sono molto più sfumate.

Il professore dell’Università di Yale, Jeffrey Sonnenfeld, ha stilato una lista sulle compagnie estere presenti in Russia, distinguendo chi ha deciso di lasciare il Paese e chi, invece, è rimasto. Secondo Sonnenfeld, oltre 500 imprese se ne sono andate dallo scoppio della guerra, chiudendo impianti e filiali commerciali. Tuttavia, 59 imprese sono ancora attive in Russia. Anzi: non hanno nessuna intenzione di andarsene, almeno per il momento (l’elenco è aggiornato ogni giorno).

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Business as usual

Si tratta di gruppi importanti per i quali vale l’adagio business as usual. Altre 71 aziende, invece, dopo aver ridotto la propria attività, ad esempio rinviando gli investimenti o sospendendo le campagne pubblicitarie, continuano a produrre e a vendere. Le imprese americane sono quelle più attaccate ai loro affari in Russia: addirittura 19, tra cui Manitowoc, che produce gru, la compagnia di assicurazioni Fm Glocal e CloudFlare che si occupa di servizi di sicurezza su Internet.

Ma anche molte aziende europee sono restie a recidere i legami con Mosca. Tra i Paesi Ue, quello più rappresentato nella lista è la Francia, le cui compagnie sono il primo datore di lavoro estero in Russia con 150mila dipendenti. Oltre a Leroy Merlin, le imprese francesi che continuano la propria attività come prima della guerra sono l’azienda di telecomunicazioni Eutelsat, la catena di supermercati Auchan, il colosso bancario Société Générale, BlaBlaCar e Saint Gobain. L’elenco, fino a pochi giorni fa, era molto più lungo. Molte società hanno cambiato i propri piani la settimana scorsa.

Il cambio di programma di Renault

Renault, ad esempio, ha bloccato la propria produzione in Russia, dopo che il ministro degli esteri ucraino aveva chiesto di boicottare la casa automobilistica, controllata dallo Stato con il 15% del capitale. La riluttanza ad abbandonare il Paese è dovuta all’importanza del mercato russo per la compagnia francese. Renault, infatti, nel 2021 ha venduto in Russia 482mila auto, più di ogni altra azienda occidentale, una cifra che rappresenta il 18% del totale delle vendite del gruppo.

La forte presenza della casa automobilistica francese, che detiene quasi un terzo del mercato russo, è riconducibile principalmente alla controllata AvtoVAZ, acquistata nel 2008. Dalla quota del 25% iniziale, Renault è salita al 68% nel 2016, per un valore, al cambio attuale, pari a 2,2 miliardi di euro. AvtoVAZ produce la celebre Lada e impiega 45mila dipendenti. Ma i rapporti economici vanno oltre al settore dell’automotive.

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Il rapporto a doppio filo tra Parigi e Mosca

Per avere un’idea dell’importanza della Russia per le imprese francesi basta un numero: 9 miliardi di euro. Sono i ricavi generati nel Paese nel 2020 da Auchan, Leroy Merlin e Renault. Insomma, il legame tra Parigi e Mosca è a doppio filo e non sarà facile tagliarlo. Anche perché ci sono altri gruppi francesi che lavorano in Russia e sono stati costretti a dismettere, in tutto o in parte, le loro attività. Sempre la settimana scorsa, la compagnia petrolifera da 190 miliardi di dollari di fatturato, TotalEnergies, ha annunciato che bloccherà l’acquisto di petrolio entro la fine dell’anno, mentre continuerà a comprare il metano russo, vista la sua vitale importanza per l’Europa.

Ma gli annunci si sono fermati qua. Total, infatti, non sembra intenzionata ad abbandonare i propri investimenti in Russia, che sono iscritti a bilancio con un valore di 13 miliardi di dollari. La società petrolifera detiene il 10% delle quote nel progetto da 21 miliardi di dollari Arctic 2 e il 20% dell’impianto di gas naturale liquefatto, Yamal Lng, nel mare di Kara, costato in totale 27 miliardi.

La finanza francese radicata in Russia

Anche il settore finanziario francese ha solidi interessi in Russia. La più grande banca dell’esagono, Société Générale, 51,35 miliardi di euro di fatturato, è molto esposta verso Mosca. Oltre al finanziamento delle transazioni con l’industria mineraria ed energetica russa, SocGen possiede Rosbank, il più grande istituto di credito a controllo estero del Paese, con 13mila impiegati e 5 milioni di clienti. Alla fine del 2021, il totale delle esposizioni della banca francese – la prima tra quelle occidentali a ottenere una licenza completa ad operare in Russia dopo il crollo dell’Unione Sovietica – erano pari a 18,6 miliardi di euro.

Durante un incontro di due settimane fa, l’amministratore delegato di SocGen, Frédéric Oudéa ha affermato che Rosbank ha sufficiente liquidità e capitale per finanziarsi senza pesare sulla casa madre. “Vogliamo mantenere e preservare questa capacità” ha detto il manager. Che poi ha aggiunto: “Sicuramente non abbiamo intenzione di aumentare la nostra esposizione al rischio russo”. Al momento temporeggiano, in attesa di schiarite, anche Danone, Air Liquide (che produce gas usati negli impianti industriali) e la catena alberghiera Accor. Per quanto riguarda le imprese di altri Paesi, lavora ancora a pieno regime l’azienda della grande distribuzione tedesca Metro e quella alimentare Ritter Sport.

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Nella lista rossa anche banche e multinazionali italiane

E quelle italiane? Nella lista rossa, e cioè tra le aziende che non vogliono andarsene dalla Russia, ci sono Unicredit e Intesa Sanpaolo. Gli istituti italiani sono, insieme a quelli francesi, i più esposti verso Mosca. Entrambe le banche hanno annunciato, ormai più di due settimane fa, di essere al lavoro per uscire dal Paese. Intesa Sanpaolo, già il 3 marzo, aveva sospeso il finanziamento al progetto Arctic 2, l’impianto di liquefazione del gas ora in costruzione partecipato da Total e dalla società russa Novatek.

Secondo Credit Suisse, Unicredit, attraverso la sua controllata in Russia, avrebbe prestiti ancora in essere per 7,8 miliardi di euro. Oltre ai crediti concessi sul mercato domestico, da Piazza Gae Aulenti, hanno fatto sapere che l’esposizione transfrontaliera verso la clientela russa è 4,5 miliardi di euro. Si tratta di meno del 2% dei prestiti complessivi della banca. Simile la situazione di Intesa Sanpaolo con crediti per 5,1 miliardi di euro, l’1% del totale, mentre i prestiti della filiale locale sono di 0,7 miliardi di euro.

Nella categoria di chi “compra tempo”, invece, si trovano Barilla – che ha sospeso nuovi investimenti e le attività pubblicitarie – e Pirelli. Quest’ultima ha fatto sapere in un comunicato che la produzione in Russia è ridotta al minimo, quanto basta per pagare gli stipendi ai dipendenti. 

Aziende strette tra danno reputazionale e nazionalizzazione degli asset

Insomma, il momento storico è molto complicato anche per le imprese occidentali, costrette a rivedere i propri piani di investimento per non venire stigmatizzate dall’opinione pubblica. Va ricordato, infatti, che le aziende presenti nella lista non sono società il cui business è soggetto a limitazioni nel quadro delle sanzioni varate contro Mosca. Si tratta, pertanto, di imprese che potrebbero continuare a operare.

Piuttosto, la decisone di lasciare la Russia è legata al timore di subire dei danni alla propria reputazione. Inoltre, molte imprese ancora presenti nel Paese sono aziende farmaceutiche o del settore alimentare, comparti fondamentali per garantire la salute e il benessere della popolazione locale. Infine, la titubanza di alcune società nel levare le tende è dovuta anche alla possibilità, paventata da Putin, di una nazionalizzazione degli impianti. Le imprese dei “Paesi ostili”, in altre parole, rischiano l’esproprio degli stabilimenti produttivi nel caso in cui decidessero di chiuderli per danneggiare i piani del Cremlino. 

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