Rescue Mission Master guerra
Strategia

La nuova corsa agli armamenti per fermare la Russia: ecco a che punto è l’Europa

Articolo tratto dal numero di aprile 2024 di Forbes Italia. Abbonati!

“Fino a poco tempo fa ci accusavano di essere dannosi, volevano cancellarci, ma ora le cose sono cambiate radicalmente”. Così commentava Armin Papperger, l’amministratore delegato di Rheinmetall, il gigante tedesco della produzione di armamenti, di fronte alla svolta epocale della Germania in materia di difesa. Era il giugno del 2022 quando il governo del cancelliere Scholz annunciò un investimento di 100 miliardi di euro per spese militari in risposta alla guerra condotta da Putin in Ucraina. Oggi l’azienda tedesca si trova tra i protagonisti del riarmo europeo, con il valore delle sue azioni quadruplicato dal 2022. Questo aumento riflette il fervore delle sue fabbriche: Rheinmetall è uno dei principali fornitori europei di proiettili d’artiglieria da 155 millimetri, una risorsa di cui l’Ucraina, in grave carenza di munizioni, ha un disperato bisogno. Entro il 2026 il gruppo tedesco dovrebbe essere in grado di produrre 700mila colpi all’anno, contro i 70mila precedenti all’aggressione dell’Ucraina.

Anche altre aziende, come la britannica Bae Systems, la francese Nexter e il gruppo Nammo, di proprietà dei governi finlandese e norvegese, stanno aumentando la loro produzione per far fronte alla domanda. Quella ucraina è una guerra che consuma artiglieria, missili, droni, sistemi di difesa aerea, lanciarazzi, carrarmati. E sta trasformando le società di armi europee. Il continente si trova di fronte uno storico crocevia: a est c’è la Russia di Putin, autoritaria e bellicosa – quest’anno destinerà il 7% del Pil al budget militare, un terzo della spesa pubblica –; a ovest c’è l’incertezza per un ritorno di Donald Trump, che non solo sta impedendo nuovi aiuti all’Ucraina, ma ha anche messo in discussione l’articolo 5 del trattato Nato sulla difesa collettiva.

Quanto hanno guadagnato i giganti europei delle armi

In questo scenario i governi europei stanno aumentando gli investimenti militari e i produttori di armi reagiscono di conseguenza. I nuovi ordini delle sette principali aziende del settore, tra cui Bae Systems, Saab, Rheinmetall e l’italiana Leonardo, hanno raggiunto la cifra quasi record di oltre 300 miliardi di euro. Sul podio dei guadagni in Borsa, al secondo posto si colloca la svedese Saab, il cui fiore all’occhiello è il jet da combattimento Gripen. Ma è un’altra l’arma che ha reso protagonista l’azienda in tempi più recenti: il lancia missili anticarro Nlaw. Leggero e maneggevole, in Ucraina è stato spedito in migliaia di esemplari che hanno inflitto perdite devastanti ai carri armati russi. E contemporaneamente hanno fatto impennare le azioni Saab. Una variazione di prezzo del 240% negli ultimi due anni, stando al Msci World Aerospace and Defense, un indice internazionale che misura la performance del mercato aerospaziale e della difesa. Altri prodotti Saab risultati decisivi includono i radar per la difesa aerea, impiegati dagli ucraini per contrastare gli attacchi di Mosca.

La terza azienda per guadagni azionari è l’italiana Leonardo, con una variazione di prezzo del 198%. Leonardo, come spiega il Financial Times, è sotto i riflettori anche per l’aumento degli ordini ricevuti da Mbda, il principale produttore europeo di missili, società controllata insieme ad Airbus e Bae Systems. Nel 2022 Mbda ha ottenuto commesse per 9 miliardi di euro. Nel 2023 ha firmato contratti per 6 miliardi di sterline (7 miliardi di euro) con la Polonia per apparecchi di difesa aerea e con Francia e Germania per aumentare la produzione. “Stiamo assistendo a una rapida evoluzione delle minacce e l’industria deve adeguarsi per affrontarle. Le attrezzature per la difesa aerea sono molto richieste”, ha spiegato Eric Béranger, amministratore delegato di Mbda. Anche Nexter ha aumentato la produzione dell’obice Caesar, un pezzo d’artiglieria a lungo raggio rivelatosi molto utile per gli ucraini sul terreno di battaglia.

I limiti della difesa europea

La guerra spinge anche gli ordini di fornitori di esplosivi e propellenti, come quelli della società britannica Chemring e della francese Eurenco. In generale, spiega il Ft, i produttori di armi europei hanno guadagnato in Borsa più dei loro colleghi americani. Ma se la guerra sta trainando i titoli azionari, sta anche mettendo a nudo le lacune del settore della difesa europeo. Un’industria che non aveva previsto e non era preparata a un conflitto di terra ad alta intensità, che nel continente non si combatteva dai tempi della Seconda guerra mondiale. Questo si vede, ad esempio, nei colpi d’artiglieria. La scorsa primavera l’Europa aveva promesso di fornire all’Ucraina un milione di proiettili da 155 millimetri, ma ne arriveranno al massimo la metà.

Come risolvere l’emergenza? Una proposta è cercare forniture all’esterno dell’Unione europea. La Repubblica Ceca dice di aver ‘identificato’ 800mila colpi disponibili subito e ha chiesto di acquistarli con uno schema comune. La somma necessaria non è così elevata: 1,5 miliardi di euro. Considerando che la Corea del Nord ha dato a Putin un milione e 500mila proiettili, se l’Europa fallisse sarebbe imbarazzante. Nel frattempo gli aiuti americani tentennano e i russi guadagnano terreno. La città di Avdiivka, in Donbas, caduta a febbraio, la prima vittoria in nove mesi dei russi, è stata abbandonata per carenza di munizioni, con gli ucraini che ora stanno razionando i proiettili. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha detto che, per la fine del 2025, l’Europa sarà in grado di produrre a un ritmo di due milioni di colpi d’artiglieria l’anno, grossomodo allo stesso livello degli Stati Uniti. Per Kiev rischia di essere troppo tardi. Ma c’è chi si dichiara comunque ottimista. In un’intervista all’Economist, Boris Pistorius, il ministro della Difesa tedesco, ha insistito sul fatto che la produzione europea di armi sta aumentando “il più velocemente possibile” e si è detto “molto fiducioso” sul fatto che l’Europa possa colmare eventuali buchi lasciati dall’America.

Il prezzo della guerra

La cosa certa, però, è che per rafforzare l’esercito serve parecchio denaro. In realtà sono ormai diversi anni che l’Europa sta spendendo di più. C’è uno spartiacque temporale: il 2014, l’anno in cui la Russia ha annesso la Crimea e sostenuto con l’esercito i separatisti del Donbas, già abbondantemente infiltrati da forze russe. In quell’anno solo tre membri della Nato avevano raggiunto l’obiettivo di spendere il 2% del Pil per la difesa. L’anno scorso lo hanno fatto 11 paesi, dieci dei quali in Europa, e quest’anno dovrebbero raggiungere la soglia almeno 18 dei 28 membri europei dell’alleanza. Il problema è che questa crescita arriva dopo un lunghissimo periodo di pace in cui gli eserciti sono stati trascurati. Nel 2022, nonostante otto anni di continui aumenti, la spesa dei membri europei della Nato non superava, in termini reali, quella del 1990. Quest’anno raggiungerà circa 380 miliardi di dollari, che a parità di potere d’acquisto è più o meno lo stesso budget della Russia, secondo calcoli dell’Economist.

Un altro problema è che le forze armate europee valgono meno della somma delle loro parti e la potenza di combattimento è relativamente debole per quel livello di spesa. Alcuni esperti dicono che, senza l’America, l’Europa oggi sarebbe nei guai. In un conflitto convenzionale con la Russia non potrebbe difendersi da sola, dice Claudia Major, analista dell’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza, come riporta il New York Times. Altri analisti affermano che l’Europa potrebbe difendersi bene nel breve periodo, ma avrebbe difficoltà a gestire una guerra d’attrito lunga e ad alta intensità. Seguendo questa logica, indirizzare il 2% del Pil alla difesa rischia di non essere sufficiente. Il governo tedesco, ad esempio, afferma che la Germania dovrà spendere il 3,5% affinché le forze armate possano ripristinare le proprie capacità di combattimento. I soldi servono per colmare le lacune del passato e rimpiazzare il materiale spedito in Ucraina, ed è uno stato di cose comune a molti paesi europei.

Questi requisiti di budget potrebbero essere inferiori se ci fosse meno frammentazione tra i 27 eserciti dell’Unione europea (diverse modalità di acquisto, diverse attrezzature, a volte capacità che si sovrappongono). Poi c’è da considerare che i fabbricanti d’armi, anche volendo aumentare la produzione, fanno fatica a reagire prontamente. “Gli eserciti bonsai dell’Europa hanno alimentato industrie bonsai”, spiega Christian Mölling, un altro esperto del think tank Consiglio tedesco per le relazioni estere.

O le armi o le pensioni

Va detto, però, che anche la Russia ha subito perdite enormi in Ucraina, e ci vorrà tempo prima che Mosca possa ricostituire le forze e minacciare l’Europa. Analisti e governi parlano di un intervallo che va da tre a otto anni. “Non si può escludere che entro cinque anni la Russia metterà alla prova l’articolo 5 e la solidarietà della Nato”, ha detto il ministro della Difesa danese, Troels Lund Poulsen. Gli ha fatto eco il suo omologo tedesco, Pistorius: “Le minacce di Putin contro gli stati baltici, la Georgia e la Moldavia vanno prese molto sul serio. Potremmo trovarci in pericolo entro la fine di questo decennio”. Proprio entro la fine del decennio, secondo il rapporto annuale dell’intelligence estone, la Nato dovrà tener testa a “un esercito di massa in stile sovietico”. Il problema è capire come la Nato arriverà a quell’appuntamento. Se l’impegno americano si ridurrà, l’Europa dovrà rafforzare la propria deterrenza. Come faranno i paesi a rispettare impegni più ambiziosi? Un budget militare più alto comporta scelte difficili.

Facciamo l’esempio di paesi come Francia, Germania, Spagna e Italia. Hanno già tasse pesanti, dunque è complicato raccogliere ancora denaro con l’imposizione fiscale. Potrebbero essere costretti a ridefinire le priorità, spostando la spesa dal welfare alla difesa. Secondo i calcoli dell’Ifo Institute, un centro di ricerche economiche con sede a Monaco, per arrivare al 3% del Pil in difesa, il budget per tutto il resto dovrà diminuire del 3% in Germania e in Italia e del 2% in Gran Bretagna e Francia. Carri armati al posto di sussidi e pensioni. Che cosa diranno gli elettori? In teoria un tipo di spesa duratura come quella per l’esercito andrebbe finanziata con le tasse. Ma in uno scenario che richiede investimenti rapidi potrebbe essere fatta un’eccezione. Il regolamento fiscale della zona euro, secondo l’Economist, consentirebbe un certo spazio di manovra. Paesi poco indebitati non avrebbero problemi a ottenere nuovi prestiti, anche se la Germania deve sbloccare il freno che si è autoimposta con una legge costituzionale.

La linea Draghi

Mettiamoci invece nei panni dell’Europa meridionale. Lì c’è meno margine per prendere nuovo denaro a prestito. E questo ci porta all’ultima opzione: debito comune europeo, la strada indicata da Mario Draghi in un articolo l’anno scorso sull’Economist e più di recente a una conferenza della National Association for Business Economics a Washington. “Anche i più duri isolazionisti devono rendersi conto che ogni paese europeo è troppo piccolo per stare da solo”, ha detto Draghi. “Possiamo fare ulteriori passi avanti finanziando una quota maggiore di investimenti in modo collettivo”. Soprattutto in paesi che spendono poco in difesa – l’Italia è uno di questi, con l’1,5% del Pil – c’è la speranza che il debito europeo possa sostituirsi alle casse statali.

Ma è una speranza o un’illusione? Ursula von der Leyen sembra aver aperto a questa possibilità quando ha detto che l’Europa dovrebbe fare acquisizioni congiunte di armi finanziandole con debito comune. Ma a ben vedere si tratta probabilmente solo di incentivi. Ciò significa che ogni stato membro deve avere il proprio budget per partecipare agli acquisti. Nel 2022 l’Italia si è impegnata a spendere il 2% del Pil in difesa entro il 2028. In Parlamento votarono tutti a favore, tranne il Movimento 5 stelle. Il consenso europeo è che a quel traguardo i paesi debbano arrivare con le proprie forze, e anche per investimenti ulteriori meglio non affidarsi troppo a piani collettivi. “Per l’Italia puntare sul debito comune per finanziare la difesa è un vicolo cieco”, ci spiega Alessandro Marrone, capo del programma Difesa dell’Istituto Affari Internazionali (Iai), uno dei principali think tank italiani di politica estera. “È un’illusione che non trova riscontro nella volontà politica degli altri paesi e delle istituzioni europee”. Alle società della difesa servono ordini duraturi per aumentare la produzione in modo significativo. Per ora basta la crescita attuale. Ma quanto durerà il boom in Borsa? 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Per altri contenuti iscriviti alla newsletter di Forbes.it CLICCANDO QUI .

Forbes.it è anche su WhatsApp: puoi iscriverti al canale CLICCANDO QUI .