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1 dicembre 2025

Meno risorse per la competitività e rischi per le condizioni di vita: il prezzo del riarmo occidentale

L'incremento delle spese per la difesa rischia di togliere risorse da destinare al sistema produttivo e ai servizi
Meno risorse per la competitività e rischi per le condizioni di vita: il prezzo del riarmo occidentale

Alberto Bruschini
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Alberto Bruschini

La mancata partecipazione del presidente statunitense Donald Trump al G20 in Sudafrica – nonostante i ripetuti sforzi dei diplomatici sudafricani per assicurarne la presenza al primo vertice dei 20 grandi ospitato nel continente africano – segna la fine del multilateralismo a guida americana. Il cambio di rotta nella politica estera perseguito da Trump, insieme alle guerre in Ucraina e in Medio Oriente, ha mutato il paradigma che aveva guidato l’Occidente dopo la fine della Guerra fredda, spostando la geopolitica globale dalla competizione al conflitto.

Questo cambio di paradigma ha portato a una crescente militarizzazione dell’Occidente, anche per contenere l’espansione della Cina. Secondo l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri), negli ultimi 20 anni la spesa per la difesa dell’Occidente è quasi triplicata: dai 956 miliardi di dollari del 2002 ai 2.714 miliardi del 2024.

Il debito americano

Le spese militari rappresentano una delle principali cause dell’enorme debito pubblico americano. Dalla dissoluzione dell’Urss, gli stanziamenti per la difesa sono aumentati di 2,65 volte, passando da 378,46 miliardi di dollari nel 2002 ai 997,309 miliardi del 2024, a fronte di una spesa pubblica complessiva di 3.996 miliardi. Secondo l’economista statunitense Jeffrey Sachs, proprio le spese militari costituiscono uno dei fattori determinanti dell’attuale livello del debito Usa.

La tendenza positiva del rapporto debito/Pil osservata negli Stati Uniti dopo la pandemia – tornato nel 2021 al 112%, rispetto al 128,4% del 2020 – si è invertita con l’aumento abnorme delle spese militari: nel 2024 il rapporto ha raggiunto il 129%, superando quello del 2020. Il sommovimento geopolitico ed economico provocato dalle guerre in Ucraina e in Medio Oriente e dal cambio della politica estera americana – passata dalla globalizzazione alla logica degli accordi bilaterali – è molto più profondo di quanto si potesse immaginare.

Lo shutdown (blocco della spesa federale), che aveva già investito l’amministrazione Biden, è stato affrontato da Trump per oltre 40 giorni, ma tornerà nei primi mesi del 2026 in uno scenario ancora più complesso. I consistenti tagli alla spesa pubblica previsti nel bilancio statunitense 2025/26 e la guerra dei dazi, pensata per sostenere l’espansione dell’economia riducendo le importazioni, riportano al centro dello scenario globale lo slogan ‘America first’, caro al popolo Maga.

Il fronte ucraino

La riduzione della spesa militare americana oltre confine è incompatibile con la prosecuzione delle guerre in Ucraina e in Medio Oriente. Con questa consapevolezza, Trump non ha perso tempo: prima ha presentato un piano di pace per fermare la strage di palestinesi a Gaza, dopo il massacro del 7 ottobre; poi ha avanzato una proposta per la risoluzione del conflitto in Ucraina, dopo aver ‘riabilitato’ Putin in Alaska, nel tentativo di allontanarlo dalla Cina e di renderlo più disponibile a un accordo con Zelensky, anche per non compromettere il piano di pace in Medio Oriente.

La Casa Bianca ha fretta di chiudere la guerra in Ucraina. Gli alleati europei – con cui Trump non ha mai avuto grande sintonia – sono partner commerciali cruciali, ma allo stesso tempo vengono considerati un buco nero in cui spariscono asset militari. L’Europa e la Nato si affannano a trattenere gli Stati Uniti nell’alleanza atlantica, ma a quale prezzo? Washington verserà sempre meno risorse, mentre incasserà somme crescenti dalla vendita di armamenti. L’Ue si ritroverà così a sostenere il costo della Nato, della sicurezza (riarmo) e degli aiuti all’Ucraina, sia in guerra sia in tempo di pace.

L’irrilevanza dell’Europa

Il fragoroso vuoto dell’Europa e la sua irrilevanza politica sono il prezzo pagato dall’unione per essersi limitata a sopravvivere alle contingenze, senza costruire una visione di lungo periodo capace di ampliare i confini dell’Occidente. Nell’ultimo vertice Nato, tutti i 32 paesi membri, sotto pressione degli Usa, hanno deciso di portare entro il 2035 – con verifica intermedia nel 2029 – la spesa militare dal 2% al 5% del Pil: il 3,5% in armamenti e l’1,5% in infrastrutture e cybersicurezza.

Nel 2024 gli stati membri dell’unione hanno destinato alla difesa 362 miliardi di dollari, pari all’1,9% del Pil. Per raggiungere il 3,5% servirà arrivare a 600 miliardi nel giro di dieci anni. Poiché una difesa comune europea non potrà prescindere dalla presenza Usa ancora per molto, l’Ue ha fatto proprio il progetto della Commissione europea Readiness 2030, operativo dal 29 maggio, che spinge gli stati membri a incrementare gli investimenti militari non in dieci anni, ma in quattro.

Un colpo alla competitività

I circa 600 miliardi di dollari aggiuntivi di spesa per il riarmo – che potrebbero essere finanziati a debito dall’Ue, da rimborsare dopo dieci anni ed estinguere in 45 – sottrarrebbero risorse finanziarie fondamentali alla competitività dell’economia europea. Risorse che il sistema produttivo ritiene indispensabili per affrontare la concorrenza di Cina, India e Stati Uniti, senza contare le nuove esigenze legate all’invecchiamento della popolazione.

L’Europa sembra dimenticare che questi paesi stanno investendo ingenti capitali pubblici e privati per potenziare la capacità produttiva delle imprese: innovazione tecnologica, digitalizzazione, intelligenza artificiale e formazione professionale. In Italia, gli effetti del riarmo si vedono già da quest’anno: secondo l’ultimo Documento programmatico di finanza pubblica (Dpfp), la spesa per la difesa – dai missili ai blindati – assorbirà il 41% dei fondi destinati all’industria.

E ciò avviene mentre il piatto piange. I continui appelli della presidente del Consiglio al rigore nei conti pubblici, che nessuno contraddice, restano lettera morta di fronte a un’economia destinata a crescere meno dell’1% nei prossimi tre anni, nel corso dei quali dovremo destinare altri 12 miliardi alla difesa.

Se le premesse sono queste, non si comprende come Confindustria non colga il rischio che questo drenaggio di risorse finanziarie renda vane le richieste di piani triennali da 600 miliardi di dollari per aumentare la capacità produttiva e la competitività delle imprese che, con le esportazioni, hanno contribuito a mantenere in equilibrio la bilancia dei pagamenti e l’affidabilità del debito pubblico.

Il prezzo delle armi

Mala tempora currunt per chi governa, ma soprattutto per il popolo italiano, poiché il notevole incremento della spesa militare rischia di compromettere il livello generale delle condizioni di vita. È pericoloso allentare la presa, rinunciando persino all’esercizio del diritto di voto conquistato dopo la Seconda guerra mondiale. Cullarsi sugli allori, pensando che i problemi possano essere risolti disinteressandosi della partecipazione politica, significa esporsi al rischio di rimanere impantanati nelle sabbie mobili della decrescita economica e sociale.

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