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Le mani di Mosca sulla blockchain, quelle di Pechino sull’intelligenza artificiale

Si susseguono indiscrezioni e allarmi sui media anglosassoni circa l’avanzata delle altre grandi potenze a scapito della leadership americana, finora incontrastata. Lunedì è stato il New York Times a parlare delle ambizioni russe di conquistare la leadership nella gestione delle monete virtuali attraverso il controllo degli algoritmi destinati a rappresentare lo standard delle future blockchain.

Il quotidiano statunitense ha rivelato come l’anno scorso i rappresentanti di 25 Paesi si siano incontrati a Tokyo per affrontare il tema della fissazione di standard comuni per regolare la blockchain. Per gli Stati Uniti erano presenti Microsoft e Ibm, la Cina ha inviato una nutrita delegazione di scienziati, per lo più dipendenti del ministero delle Finanze. Ma la vera sorpresa è stata quella di scoprire che a guidare il team in arrivo da Mosca era Grigory Marshalko, già alto dirigente dello Fsb, il successore del Kgb. Non solo. Altri tre membri (su quattro) della delegazione vantavano un passato da spia. E la sorpresa, riferisce il New York Times, si è tramutata in inquietudine quando negli incontri a porte chiuse tra i delegati lo stesso Marshalko si è spinto a dire: “Internet appartiene agli americani, ma la blockchain sarà roba nostra”.

L’episodio, secondo il quotidiano Usa, è un indizio eloquente dell’attenzione con cui Vladimir Putin segue lo sviluppo della tecnologia blockchain, al centro del programma di Economia digitale lanciato dal presidente che ha già manifestato interesse per la creazione di un cripto rublo (lo scorso anno lo stesso Putin ha invitato al Cremlino Vitalik Buterin, il creatore di Ethereum, la moneta virtuale più scambiata dopo il Bitcoin). Ma le attenzioni non sono solo economiche. La blockchain, si sa è il cuore del sistema delle valute virtuali, il database di tutte le transazioni condiviso da un network di computer gestito da più operatori, invece che da un solo cervello centrale. Ma il sistema sta per evolvere con la creazione di standard comuni sotto la cupola dell’Iso (International Organization for Standardisation) l’organizzazione internazionale per la normazione. Il rischio – è la denuncia di alcuni esperti indipendenti – è che alcuni Paesi (Russia in testa) che stanno investendo grosse risorse per promuovere i propri algoritmi quale standard comune, possano imporli quali “cavalli di Troia” che consentiranno di spiare tutte le attività del mondo virtuale.

Nel frattempo, ci informa il Financial Times, Pechino dispone ormai di un rilevante margine di vantaggio nell’utilizzo delle tecnologie legate all’intelligenza artificiale. La chiave del successo cinese sta nella ricchezza di dati su cui i ricercatori cinesi possono basare la loro ricerca. È il caso di Yitu Technology, che ha vinto nei mesi scorsi due competizioni negli Stati Uniti dimostrando la sua superiorità nel campo della tecnologia del riconoscimento facciale. I suoi risultati sono stati testati sule foto di un miliardo e mezzo di cinesi, un campione formidabile e irraggiungibile.

Malong Technologies ha invece sottoposto all’esame dell’intelligenza artificiale le foto di centinaia di migliaia di ragazzi cinesi, con l’obiettivo di individuare i trend di moda. Nei giorni scorsi la società di Shenzhen ha venduto l’utilizzo del software negli Stati Uniti: uno schiaffo alla politica di Donald Trump di imporre alti dazi sul trasferimento della proprietà intellettuale nel campo della tecnologia alla Cina. Pochi anni fa poteva essere una politica vincente. Oggi, vista la rapidità del progresso di Pechino rischia di essere un’arma spuntata.

Le cose tuttavia al momento non stanno proprio così. Come prova la vittoria di AlphaGo, un programma creato da Google contro Ke Jie, il campione di Go!, l’antico gioco da tavolo cinese. L’avvenimento ha avuto una grande eco sotto la Muraglia e proprio questo avrebbe scatenato secondo Google la reazione del Dragone, che sta profondendo grossi sforzi per agguantare la leadership nello sviluppo di algoritmi, contando sui dati che un regime autoritario – e quindi senza troppe preoccupazioni di privacy – può raccogliere con facilità. Ad accelerare la rincorsa, poi, sono le occasioni professionali offerte a molte teste d’uovo, le sea turtles (il termine con cui sono definiti i figli dell’alta borghesia emigrati per ragioni di studio negli Usa), che stanno facendo ritorno in patria. Il risultato è una forte accelerazione nelle applicazioni di intelligenza artificiale nei campi più disparati: assistenti virtuali hanno sostituito gli stenografi in 6mila tribunali; sistemi basati sull’AI sono usati negli ospedali per la diagnosi dei tumori, nella metro di Shanghai si possono comprare biglietti con un comando vocale. E così via. La società cinese potrebbe anche accumulare un sensibile vantaggio nell’accelerazione delle smart city, i centri urbani delle nuove città, da disegnare o trasformare alla luce delle esigenze delle macchine a guida autonoma e assicurare così in futuro alla Cina un rilevante vantaggio competitivo. Chissà, forse un’applicazione delle teste d’uovo dell’università di Shanghai o di Stanford, poco importa, potrebbe risolvere il problema di come evitare le buche nelle strade di Roma.

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