Innovation

Gli «etichettatori», ovvero i nuovi schiavi dell’intelligenza artificiale

L’opinione diffusa è che l’Intelligenza Artificiale possa fare tutto da sola: ad esempio, nel segmento delle self-driving car, catturare con dei sensori immagini ad altissima risoluzione del paesaggio circostante, e scegliere autonomamente quale direzione prendere, quando fermarsi, dove parcheggiare; una entità capace di accrescere – tra l’altro – le proprie conoscenze mano a mano che viene adoperata, arricchendo il proprio archivio personale di esperienze con soluzioni alternative per risolvere problemi.

In realtà, ogni tipo di linguaggio è fondamentalmente ambiguo. Nel “dialogo” che una macchina instaura con il mondo in cui si muove, il condizionamento e il contesto sono molto forti, e i robot hanno bisogno di costanti feedback che li aiutano a capire meglio i segnali che ricevono, sotto forma di volti, rumori, espressioni del volto. Più si abbassa il tempo di risposta consentito tra segnale e reazione, più la comunicazione gestita dalle macchine diventa difficile. L’AI continua ad avere bisogno di un gran numero di persone in carne ed ossa che la informi su cosa sta guardando, e le insegni a distinguere un albero da un grattacielo, o un bambino da un adulto, per evitare errori grossolani o tragici. È qui che intervengono i cosiddetti “etichettatori”, e spesso fanno una vita così grama che, chi ha a cuore la loro sorte, li definisce i “nuovi mezzadri” della Silicon Valley.

Quella dei lavoratori impiegati nel labeling, cioè nell’attività di “nominare” concetti e cose, è una specie di sottoclasse si è sviluppata parallelamente alla rivoluzione dell’AI, riporta Axios. Essa comprende migliaia di impiegati a basso salario negli Stati Uniti e nel resto del mondo che hanno il compito gramo di catalogare milioni di pezzettini di immagini e dati per “istruire” l’AI, renderla più “sveglia”: nella fase di progettazione di un servizio o di un prodotto, ma anche durante il suo impiego, perché il machine learning non basta mai.

È un’attività che viene spesso data per scontata o realizzata all’ultimo momento, poiché l’attenzione viene concentrata tutta sul visual design dei prodotti e sull’interfaccia a cui poi l’etichettatura deve adeguarsi. Nonostante questo, rappresenta un business enorme: secondo uno studio di Cognilytica il labeling potrebbe passare da un valore di 150 milioni oggi a oltre 1 miliardo di dollari entro la fine del 2023.

Molte società ricorrono all’esternalizzazione: l’ad di Alegion, una piattaforma di crowndfunding con sede in Texas, fa sapere che si affida a etichettatori che lavorano all’estero e vengono pagati tra i 3 e i 6 dollari l’ora.  La BBC ha parlato recentemente dei lavoratori kenyani che preparano le informazioni necessarie all’AI occidentale.

È un lavoro noiosissimo, sia chiaro, che consiste nel passare tutto il giorno davanti a un computer evidenziando (tanto per dirne una) i segnali stradali all’interno di fotografie scattate dai veicoli che si guidano da soli. In questo settore un’ora di filmati, per essere “etichettata”, può richiedere fino a 800 ore di lavoro. Secondo alcuni osservatori però questo settore potrebbe rappresentare un’occasione di sviluppo per le aree rurali, dove i lavoratori tendono a essere meno specializzati e in ogni caso a rischio disoccupazione a causa della stessa intelligenza artificiale.

Dei lavoratori nel labeling si stanno interessando, però, sempre più i sociologi e gli economisti, che li trovano rappresentativi di alcune dinamiche tipiche della globalizzazione – e forse un caso esemplare per capire come affrontarle. Le società americane che fanno uso di labeler sostengono di pagarli tra i 7 e i 15 dollari l’ora, ma potrebbe trattarsi solo della fascia di salariati più privilegiata. In Asia si scende fino ai 2 dollari l’ora. Senza il labeling umano, l’AI resterebbe “ottusa”, ma per il momento i grandi vincitori restano i grandi investitori che fanno base per lo più nel Nord America, in Europa e in Cina e cercano di mantenere le mansioni dei labeler più ripetitive possibile. Così possono evitare richieste di aumenti salariali, da un lato, e dall’altro sfruttare una larga fetta di manodopera disponibile in tempi brevi e senza nessuna qualifica.

“Stiamo creando posti di lavoro nel digitale che prima non esistevano”, si giustifica un manager che lavora con l’AI, intervistato da Axios. “Molto spesso coloro che fanno questo lavoro provengono da fattorie o da fabbriche che sono state spolpate dall’automazione”.

Secondo Mary Gray e Siddharth Suri, autori di saggio che affronta questo tema dal titolo Ghost Work, le pratiche di sfruttamento diffuse all’interno del mondo hi-tech rafforzano le disparità già presenti nell’economia dei robot. Il mercato, da solo, non basta a trovare il prezzo più giusto e umano per queste attività, spiegano, e ci si è ridotti a valutare gli etichettatori come un bene durevole; andrebbero, invece, considerati come una forma di intelligenza collettiva.

In un’economia dove le società sono attraversate sempre più da polarizzazioni politiche e si parla sempre più di ineguaglianza, la deflazione salariale è diventata una questione morale e non soltanto economica. James Cham, che lavora con una società di venture capital, sostiene che le società di AI giocano sulla differenza tra il prezzo ridicolmente basso degli etichettatori e l’immenso profitto di lungo termine del prodotto finale: “I lavoratori sono pagati solo una volta, come i mezzadri, con un salario di sussistenza. I proprietari terrieri invece si prendono tutti i ricavi perché così è impostato il sistema”, spiega ad Axios, aggiungendo che si tratta di “Una grande operazione di arbitraggio”.

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