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Strategia

Perché la personalizzazione è un virus che può uccidere i brand

riunione di marketing
(Shutterstock)

Nel 2040 i brand di massa erano in rapido declino. Le aziende creavano prodotti per attirare i gusti unici di ogni consumatore, con cicli di vita sempre più brevi. La tecnologia permetteva di trasmettere messaggi personalizzati direttamente nel cervello di ogni consumatore, nel momento esatto in cui questi mostravano una qualche forma di bisogno. Tuttavia, poiché l’intelligenza artificiale era diventata così efficace nell’identificare quei momenti, i consumatori arrivavano a ricevere fino a 7,8 milioni di messaggi personalizzati al giorno, con una media di 90 micro-brand in competizione ogni secondo per catturarne l’attenzione. Nonostante l’aggregazione delle recensioni che consentiva di ridurre l’asimmetria delle informazioni, il numero di scelte era però diventato troppo grande. Furono così sviluppati algoritmi che consentivano di ricevere tutti i messaggi, valutarli ed automatizzare ogni acquisto sulla base della pertinenza del messaggio rispetto alle caratteristiche “uniche” del singolo consumatore.

Nel 2048 i brand di massa erano ormai completamente scomparsi. L’acquisto ripetuto era diventato l’eccezione, la fedeltà al brand completamente svanita. Di conseguenza, anche l’idea di poter essere in grado di mantenere una “brand promise” si era totalmente vaporizzata. I consumatori scoprirono così che il loro potere nei confronti dei brand si era ridotto a zero.

Molte, anzi moltissime aziende stanno contribuendo a realizzare questo scenario. Sono spinte dall’idea che ogni consumatore debba essere trattato in modo diverso rispetto agli altri, ogni punto di contatto debba essere personalizzato. In questo cammino sono spesso incoraggiate – ahimè – da molti consulenti. Ricordo ad esempio il titolo recente di un articolo di una pregiatissima società di consulenza: “Personalizzazione digitale su larga scala”. Oppure, ecco l’affermazione di un’altra pregiata società di consulenza: “La personalizzazione è fondamentale se si cerca di migliorare la centralità e il coinvolgimento dei clienti”.

Ma è corretto perseguire questa strategia?

Ho molti dubbi in proposito. In realtà sono convinto che i brand debbano resistere al culto dell’individuo e della personalizzazione che contraddistinguono gran parte della cultura occidentale. Quando parliamo dei brand come elementi di una cultura, spesso dimentichiamo infatti cosa significa essere parte di una cultura.

La ricerca sociale descrive le “sindromi culturali” come uno schema di atteggiamenti, credenze, categorizzazioni, definizioni di sé stessi, norme e valori relativamente ad un certo tema, condivisi da una comunità di persone. Numerose ricerche sociali hanno chiaramente dimostrato che in qualsiasi cultura, la complessità, l’individualismo e la poca disciplina nel rispetto di regole comuni, sono sempre intrecciate. Al contrario, la semplicità, il comunitarismo e la disciplina nel rispetto delle regole comuni, sono ugualmente collegate. Ogni spostamento verso una di queste sindromi, comporta anche uno spostamento corrispondente verso una sindrome correlata.

È quindi chiaro il motivo per cui la tendenza verso la continua personalizzazione risulta rischiosa da adottare per i brand di massa. Essa richiede una maggiore complessità nell’approccio e una gamma più ampia di contatti contestuali. Ed inoltre, affinché un brand sia rilevante per ogni singolo consumatore, esso deve rinunciare di rappresentare un’idea unificante, un significato unico. Dare priorità all’individuo significa inevitabilmente realizzare consumer journey e piani di contatto più complessi e meno rispettosi di regole comuni.

I brand del mercato di massa dovranno invece:

  • essere sempre coerenti, ripetersi
  • essere semplici, semplificare la vita
  • creare comunitarietà

 

  • Il brand deve essere sempre coerente, deve ripetersi

La ricerca neuroscientifica recente ha chiaramente dimostrato che in ogni momento di veglia il nostro cervello utilizza l’esperienza passata – organizzata sotto forma di “concetti” – per simulare il mondo esterno e guidarci nelle nostre azioni. Senza i “concetti” saremmo esperienzialmente ciechi. Attraverso i concetti già presenti, il nostro cervello simula ciò che ci circonda e prevede ciò che dovrebbe accadere. Questo è il motivo ad esempio per il quale le persone immaginano gli alieni con facce di umanoidi o con corpi simili a degli insetti. Tutti immaginiamo una creatura completamente nuova – che non abbiamo mai visto – sulla base di precedenti esperienze, sia che le abbiamo vissute oppure semplicemente lette o ascoltate. I brand sono quindi dei “concetti” residenti nel nostro cervello utilizzati per prevedere l’esperienza che vivremo nel corso dell’interazione con il brand stesso. Essi sono basati sull’esperienza pregressa, ed in generale sulla conoscenza che abbiamo di quel brand.

Quando l’esperienza prevista e quella effettiva divergono – cioè si è verificato un errore di previsione – il brand contribuisce a garantire un intervallo di confidenza più ampio, attenuando eventuali differenze tra le esperienze effettive e quelle previste. Per poter fare questo però, il brand deve essere rappresentato da un “concetto rigido di realtà”, e questo può accadere solamente se le associazioni e i significati condivisi attorno al brand rimangono coerenti in momenti e luoghi diversi e tra persone diverse.

Se una bottiglia di Coca-Cola in un bar di Berlino non avesse un buon sapore, ne chiederesti sicuramente un’altra in un secondo bar di Berlino. Se la stessa cosa accadesse in altri due bar della città, potresti sospettare che qualcosa non sia andato bene nell’impianto di imbottigliamento della zona, ma è improbabile che possa influire sul tuo futuro comportamento di acquisto della Coca-Cola una volta tornato in Italia. La stessa storia per una bevanda a te prima sconosciuta sarebbe finita nel primo bar.

  • Il brand deve essere semplice, deve semplificare la vita

Riprendo le parole di Daniel Kahneman per spiegare il motivo per cui i brand devono essere semplici, “Pensare è per gli umani ciò che nuotare è per i gatti; possono farlo ma preferiscono non farlo”. Il ruolo principale di un marchio è quindi quello di ridurre la fatica cognitiva per i consumatori. Che si tratti di semplificare una scelta di acquisto, rappresentare o comunicare un’identità che tutti possano comprendere, il brand è comunque uno strumento di semplificazione. Ed inoltre, il brand deve trasmettere la semplicità mascherando la complessità sottostante. Come sottolineò Steve Jobs, la semplicità viene dalla conquista della complessità, non dal suo ignorarla, “Ci vuole molto lavoro per rendere qualcosa semplice”.

  • Il brand deve creare comunitarietà

Innanzitutto una considerazione quantitativa. Anche se la crescente quantità di dati comportamentali raccolti attraverso i canali digitali incoraggia le aziende a rivolgersi direttamente ai clienti in maniera personalizzata, la legge di Double Jeopardy spiega chiaramente il motivo per il quale i brand debbano invece aumentare la penetrazione di mercato per poter crescere: il maggior ritorno finanziario proviene dalla comunicazione con clienti esistenti “leggeri” e con clienti potenziali che conoscono e pensano meno al brand, rispetto ad azioni dirette verso clienti esistenti che già hanno acquistato in modo rilevante un certo brand.

Inoltre, non dobbiamo dimenticare mai che è praticamente impossibile rinunciare alla conoscenza collettiva di un brand e assegnargli un significato completamente personale. Un nostro atteggiamento nei confronti di un determinato comportamento non è semplicemente derivato dai nostri valori e dalle nostre esperienze, ma anche da ciò che immaginiamo altre persone possano pensare dello stesso comportamento.

Non ha senso acquistare un’auto o un capo di abbigliamento di un certo brand per segnalare il tuo stato sociale, se nessun altro sa cosa rappresenta quell’auto o quel capo.

Questo significa anche che è più importante identificare ciò che rende le persone simili, non diverse, trovare ciò che le unisce, non ciò che le divide.

Voglio terminare questo articolo con un pensiero di Antoine de Saint-Exupéry:

«Se vuoi costruire una nave,
non richiamare prima di tutto
gente che procuri la legna,
che prepari gli attrezzi necessari;
non distribuire compiti,
non organizzare il lavoro.
Prima risveglia invece negli uomini
la nostalgia del mare lontano e sconfinato.
Appena si sarà svegliata in loro questa sete,
gli uomini si metteranno subito al lavoro
per costruire la nave».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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