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Parole bandite in chat e il primo sindacato: cosa succede tra Amazon e i suoi dipendenti

Il rapporto tra Amazon e i suoi dipendenti resta complicato. A riaccendere il dibattito sulle condizioni di lavoro nell’azienda di Jeff Bezos è stato The Intercept, rivista online lanciata nel febbraio del 2014 dall’organizzazione First Look Media, che ha diffuso una lista di parole che sarebbero bandite dall’app di messaggistica interna, prossima al lancio.

La lista

Secondo The Intercept, Amazon avrebbe deciso di bloccare e segnalare i post dei dipendenti contenenti alcune parole specifiche sull’app. Un sistema di monitoraggio automatico avrebbe bandito molti termini potenzialmente critici verso le condizioni di lavoro in azienda.

Alcune delle parole riportate da The Intercept sono: odio, sindacato, aumento di stipendio, bullismo, molestie, stupido, vaccino, salario, sleale, favoritismo, schiavitù, capo, libertà, bagno, comitato, coalizione. Si tratterebbe quindi di termini legati sia alle condizioni di lavoro, sia alle possibili unioni sindacali tra lavoratori.

In particolare, la parola bagno riporta a una polemica del 2021. Fece molto scalpore, infatti, la denuncia di alcuni corrieri e dipendenti negli stabilimenti statunitensi di Amazon, che raccontavano di essere costretti a espletare i loro bisogni in una bottiglia durante i turni di lavoro.

La smentita di Amazon

All’articolo di The Intercept è stata poi aggiunta una smentita parziale. Un portavoce di Amazon ha spiegato che è in cantiere un’applicazione di messaggistica interna per favorire l’interazione tra i lavoratori, ma ha spiegato che l’elenco di parole vietate diffuse dal sito non è corretto. Ci saranno quindi termini non consentiti, ma riguarderanno solo la sfera semantica della violenza verbale e delle molestie.

La fondazione del primo sindacato

Intanto, all’inizio di aprile è nata la prima sigla sindacale dei dipendenti di Amazon. A sancire questa svolta storica è stato il voto dei lavoratori newyorkesi. La nascita della prima Amazon Labour Union è il risultato della battaglia condotta da Chris Small, 32enne ex impiegato di Amazon. Small era stato licenziato per avere organizzato una protesta nel magazzino Amazon di Staten Island nei mesi più duri della pandemia, a causa di misure anti-Covid insufficienti.

Destino diverso, invece, per un progetto analogo in Alabama. Come ha riportato il Wall Street Journal, l’esito del referendum nell’impianto Amazon di Bessemer, in Alabama, sarà deciso da un giudice in un’udienza federale, che sceglierà a chi assegnare i 416 voti contestati. I risultati preliminari del voto mostrano una vittoria del no con 993 voti, a fronte degli 875 favorevoli. Nel 2021 il sindacato Retail, Wholesale and Department Store Union aveva fatto ricorso sull’esito del voto. Il National Labor Relations Board, agenzia governativa indipendente incaricata di far rispettare il diritto del lavoro in America, aveva poi decretato la ripetizione del referendum.

Il premio Top Employer

Nel contesto italiano, Amazon gode di un’ottima reputazione. A testimoniarlo sono alcuni numeri: secondo uno studio di The European House – Ambrosetti, che ha analizzato i bilanci delle grandi aziende private in Italia, Amazon è la società che ha creato più posti di lavoro nel Paese nel periodo 2011-2020. Non solo: stipendi e benefit hanno permesso ad Amazon di ottenere la certificazione Top Employer Italia dal Top Employers Institute nel 2021 e nel 2022. Si tratta di un riconoscimento attribuito per la qualità dell’ambiente di lavoro, le opportunità di formazione e i piani di carriera offerti ai dipendenti.

Nel 2021 Amazon  ha creato più di 4.500 posti di lavoro a tempo indeterminato, superando del 50% la quota prefissata nel piano annunciato a giugno. In due anni, quindi, ha raddoppiato il numero di dipendenti in Italia: da 6.900 a 14mila. Numeri che testimoniano il grande investimento nel Paese, che prevede anche l’ampliamento dei suoi uffici e nuove assunzioni.

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