Cultura

Pierpaolo Pasolini, l’ecologia e la pandemia: l’artista Gian Maria Tosatti racconta il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia

Classe 1980, l’artista Gian Maria Tosatti è nato a Roma e nella sua carriera ha lavorato tra Napoli e New York. Ha esposto presso l’Hessel Museum di New York (2014), il Madre di Napoli (2016) e il Lower Manhattan Cultural Council di New York. In questa intervista, racconta a Forbes Italia gli impegni con la Quadriennale di Roma e la Biennale di Venezia, oltre alla sua personale visione artistica.

Parliamo di Tosatti artista, giornalista e direttore artistico della Quadriennale di Roma. Quali sono stati gli impegni di quest’anno?

L’anno è stato decisamente impegnativo sotto diversi punti di vista. Innanzitutto è stato ampio il lavoro che ho realizzato per la Quadriennale. Qui la mia direzione artistica coincide con la volontà del cda di dare massima estensione alle funzioni di ricerca sull’arte italiana accanto a quelle di promozione a livello internazionale. L’ente ha nominato una rete di quindici curatori che si occupano del monitoraggio degli artisti sul territorio. Attraverso 22 curatori, che compongono uno staff scientifico, stiamo lavorando alla documentazione storica sull’arte dell’ultimo ventennio e all’organizzazione di alcune mostre. Nasce da quest’anno la rivista trimestrale I quaderni d’arte Italiana, pubblicata da Treccani, che sarà affiancata a un sito web. Abbiamo inaugurato da poco il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, nella quale sono per la prima volta l’unico artista protagonista. All’inizio del prossimo anno si terrà inoltre una mostra antologica dedicata a un ventennio del mio lavoro all’Hangar Bicocca di Milano.

Nel suo libro Esperienza e realtà fa riferimento all’opera non come rappresentazione ma come realtà esperienziale. Nel contesto della Biennale di quest’anno in cui il fil rouge è il surrealismo, appare come una scelta controcorrente.

Il surrealismo, alla base della poetica che ispira molte delle opere scelte dalla Alemani per la mostra principale, è un mezzo dalle grandi potenzialità. E in un momento storico come questo porta con sé una grande forza di rinnovamento. Per quanto mi riguarda, credo però sia importante equilibrare tensione e contesto. Questo porta il nostro discorso dalle regioni del desiderio a quelle della verità. D’altra parte non può esistere un’arte completamente separata dalla società e da una sua lettura.

Quindi, alla base della sua visione del ruolo dell’artista nella società si trova una visione politica?

Non politica in senso letterale. Per me l’artista è come un tragediografo che, come accadeva nella Grecia antica, crea un’opera che si fa specchio della società di un determinato momento storico, dei suoi temi e problemi più assillanti. Nella Grecia antica, all’artista era commissionata la scrittura di tre tragedie e un dramma satiresco. La tragedia costituiva nelle società antiche un irrinunciabile momento di confessione della politica nella società, dove l’opera esprimeva una funzione di ricerca forte, a volte tale da cambiare completamente l’idea che l’uomo ha di sé stesso. Non è politica l’opera ma la funzione di autocoscienza che l’artista esprime in rapporto alla società. Lo spettatore deve potersi specchiare in quella maschera e usarla come strumento. Più che l’artista, politico è lo spettatore: la verità risiede nello specchio, che è l’opera.

Sembra chiaro il riferimento costante nella sua opera a Pierpaolo Pasolini, ampiamente citato anche nell’installazione che costituisce il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia.

Pierpaolo Pasolini è stato per me l’intellettuale che mi ha consentito di essere quello che sono. Un esempio di individuo impegnato costantemente su più fronti. Pasolini è stato il riferimento cui potevo aggrapparmi quando la società di oggi voleva farmi diventare uno specialista ovvero artista, intellettuale, giornalista, saggista, direttore di spazi o di istituzioni, secondo una visione “fordista” che ci vuole costantemente specializzati in una cosa soltanto. Dimentichiamo che gli artisti dei secoli scorsi erano intellettuali a tutto tondo, impegnati costantemente su fronti di ricerca a volte lontanissimi.

Nel Padiglione Italia il riferimento alla realtà socio-economica dell’Italia della situazione post-bellica è molto forte.

Le macchine e gli oggetti che abbiamo utilizzato per costruire l’installazione del Padiglione Italia sono stati acquisiti da imprese che sono fallite e sono state liquidate durante la pandemia. Questo testimonia tutta l’arretratezza dell’idea di lavoro, delle corrispettive pratiche, ancora dominante nel nostro Paese. Praticamente e filosoficamente il lavoro è ancora quello di 60 anni fa in Italia. E’ questa la prima vera causa della nostra eterna crisi.

Il tema dell’installazione, come dichiarato, è il corrente disastro ecologico in atto.

Nell’ultima stanza l’acqua che allaga completamente il piazzale dei camion che abbiamo ricostruito, crea la percezione di un disastro imminente e inarrestabile. Ma quello sguardo prospettico che vuole partire dall’Italia è uno sguardo globale alla società postindustriale occidentale, pienamente coinvolta nel dramma ecologico in atto.

Nonostante il buio, si intravede una visione di speranza.

Sono sempre convinto che dalla visione lucida della realtà possa scaturire una spinta al mutamento. Il cambiamento è necessario a tutti noi come forma di adattamento. Ad esempio, una cosa positiva accaduta quest’anno è che il Ministero, messo di fronte alla realistica difficoltà di finanziare un’opera ambiziosa, abbia deciso, dalla prossima edizione della Biennale, di raddoppiare il budget da destinare alla realizzazione dell’opera contenuta nel nostro Padiglione. Questo maggiore coinvolgimento delle istituzioni è un segno positivo. Siamo passati da un finanziamento pubblico pari a 600mila euro a quello di un milione. Evolvere è sempre possibile.

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