rigassificatore Panigaglia
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La guerra nella guerra: come cambia l’assetto energetico dell’Europa in vista dell’inverno

Una guerra dentro una guerra. Quella militare si svolge in Ucraina, l’altra riguarda le forniture di gas e sta cambiando l’assetto energetico dell’Europa, con ripercussioni forti anche in Asia. Quest’inverno sarà la resa dei conti. Da una parte l’Europa che cerca di rescindere il legame con la Russia, creando però un buco di forniture che va colmato con altre importazioni. In mezzo gli Stati Uniti, divenuti con la guerra il più grande esportatore di gas naturale liquefatto (gnl) al mondo. Poi l’Asia, dove Giappone e Corea del Sud, secondo e terzo importatore mondiale di gnl, già da un paio di mesi tentano di assicurarsi le forniture per l’inverno e la primavera del 2023. Il loro timore è quello di essere tagliati fuori dal mercato, spiazzati dalla domanda europea che cerca ovunque alternative al gas naturale russo.

Lo strano destino degli Stati Uniti

La nostra dipendenza da Mosca è stata strettissima per decenni. Prima della crisi la Russia garantiva 160 miliardi di metri cubi l’anno, su un fabbisogno totale di 400 miliardi. Oggi i flussi si sono ridotti a meno di un terzo rispetto ai primi sei mesi del 2021 e c’è il rischio concreto che il prossimo inverno Putin chiuda definitivamente i rubinetti. Questo calo ha fatto schizzare i prezzi del gas sul mercato spot europeo (con picchi più di dieci volte superiori al valore storico), e così le società americane, pur di vendere in Europa, si sono dimostrate disposte a rompere contratti già stipulati in Asia. I margini elevati coprivano il costo delle penali e garantivano comunque guadagni notevoli. Il prezzo in Europa, dettaglio importante, è anche parecchio superiore a quello praticato in America. Ecco perché sono diminuite così tanto le vendite di gas statunitense in Sud Corea e Giappone, ma anche in Bangladesh, Pakistan, India, Singapore. I numeri non lasciano dubbi: trasportato su colossali navi cisterna, il gnl ha scalzato il carburante russo come fonte principale di gas in Europa, e metà delle forniture arrivano dagli Stati Uniti (in particolare dal Texas).

Strano destino quello degli Usa. La loro natura sembrava quella del ricco mercato di importazione, non quella di grandi esportatori. Le cose sono cambiate in modo repentino nel decennio scorso. La frenesia delle trivellazioni nei giacimenti di gas di scisto in tutto il paese – il controverso fracking, cioè perforazioni di rocce a tremila metri di profondità – ha creato un’offerta di gran lunga superiore alla domanda. Le aziende che avevano speso miliardi di dollari in piattaforme d’importazione hanno dovuto investirne molti altri per convertire all’esportazione le stesse strutture e non ritrovarsi con impianti inutili. Già diversi anni fa gli analisti si aspettavano che questa evoluzione avrebbe rimodellato il mercato del gas per decenni a venire. Nell’ottobre 2017 un’analisi del New York Times era intitolata: “Il boom del gas naturale liquefatto americano sta scuotendo il mondo dell’energia”. Nell’articolo già si parlava di come il gnl statunitense avrebbe “indebolito il dominio della Russia sui mercati energetici europei” e – forse in un eccesso di ottimismo – di come avrebbe “migliorato l’aria nelle città della Cina e dell’India, sostituendo la combustione del carbone e fornito carburante più pulito ai villaggi africani”.

Europa indipendente

Ciò che però quasi nessuno aveva immaginato è l’attuale guerra di Putin, ingiustificata e criminale, che ha affrettato la trasformazione. È interesse strategico dell’Europa rompere la complementarità con la Russia, anche perché non è saggio dipendere da un vicino aggressivo e revanscista. Ma nel breve e medio periodo il costo è alto: cittadini e imprese affrontano bollette maggiorate ed esiste il rischio di razionamento, se il Cremlino azzererà davvero le forniture. L’indipendenza da Gazprom ancora non c’è, anche se l’Europa si è mossa in fretta per trovare alternative. C’è anche un piano, a cui hanno aderito i paesi dell’Unione, per ridurre del 15% la domanda di gas, applicando risparmi volontari al consumo. Tuttavia la dinamica più evidente è la crescita delle importazioni di gas naturale liquefatto.

Lo scorso marzo, appena iniziata la guerra, il presidente Joe Biden ha promesso all’Europa di moltiplicare le spedizioni. L’obiettivo era un aumento delle forniture Usa di 15 miliardi di metri cubi quest’anno, così da garantire, entro il 2030, una crescita totale di 50 miliardi di metri cubi. Diversi analisti erano scettici, ma il risultato, almeno per ora, è superiore alle attese. Nei primi sei mesi dell’anno gli Stati Uniti hanno esportato 57 miliardi di metri cubi di gas naturale, di cui il 68%, cioè 39 miliardi, nel nostro continente. Un incremento enorme, visto che il totale del gnl spedito in Europa in tutto il 2021 è stato di 34 miliardi di metri cubi. Di questo passo, secondo gli analisti, l’aumento delle esportazioni alla fine dell’anno potrebbe raggiungere i 45 miliardi di metri cubi, dunque molto vicino al traguardo fissato da Biden (per il 2030). Si scopre poi, leggendo un’analisi di Reuters, che tra i maggiori beneficiari c’è l’Italia (il nostro maggior fornitore, però, è l’Algeria, che ha superato nettamente la Russia): le esportazioni di gnl americano sono cresciute del 206% nei primi sei mesi del 2022. Prima di noi solo la Grecia (+216%), la Spagna (+333%) e il Belgio (+658%).

L’incognita Cina

L’Europa ha potuto così riempire gli stoccaggi più dell’anno scorso. L’obiettivo è raggiungere la soglia dell’80% prima che faccia davvero freddo. L’Asia, però, non starà a guardare. È stata la principale destinazione del gas americano nel 2020 e nel 2021, e il più grande mercato è quello cinese. Con l’avvicinarsi dell’inverno, paesi come Giappone e Corea del Sud avranno bisogno di rimpolpare i loro stoccaggi. La vera incognita è la Cina, che finora ha consumato davvero poco gas. La prima causa, dicono gli analisti, è il rallentamento dell’economia dovuto ai lockdown per il coronavirus. Poi c’è il ritorno del carbone, insieme alla spinta all’uso di rinnovabili. I prezzi alti del gas contribuiscono al calo della domanda. Risultato: Wood Mackenzie, una società di ricerca, prevede che la Cina, rispetto all’anno scorso, importerà il 14% di gas naturale liquefatto in meno, la più grande flessione dal 2006. Se così fosse, per l’Europa sarebbe un grosso sollievo. Ma l’economia cinese potrebbe anche riprendersi e tornare a essere affamata di gas. A quel punto l’equilibrio potrebbe anche cambiare. Con meno gas disponibile, l’Europa sarebbe costretta a ridurre di più la domanda, e non in modo volontario (già l’Agenzia internazionale per l’energia si aspetta che il consumo nel 2022 cali del 9%).

C’è da dire che, in uno scenario del genere, i prezzi salirebbero ancora, e non è detto che la Cina sia disposta a pagarli. La chiave, secondo diversi analisti, è evitare il mercato spot e assicurarsi contratti di lungo periodo, in genere anche meno esosi. “Per avere più esportazioni americane ci vogliono investimenti in liquefazione e per farli ci vogliono contratti di lungo periodo”, spiega Massimo di Odoardo, vicepresidente del comparto gas di Wood Mackenzie. Negli ultimi anni l’Europa ha scelto un approccio diverso, affidandosi al mercato e comprando grosse quantità di gas ai prezzi spot del momento. Prima della crisi conveniva, oggi non più. Ma non c’è solo questa difficoltà. Sull’Europa grava un’altra incognita: il meteo. Molti possibili intoppi rischiano di spingerci in una crisi ancora più grave: un inverno molto freddo (sia in Europa che in Asia), tempeste nel Mare del Nord che bloccano il gas prodotto in Norvegia, una stagione di uragani particolarmente intensa che frena le navi nell’Atlantico.

I rigassificatori

L’altro interrogativo è quello dei rigassificatori. Il gas naturale liquefatto arriva in Europa su gigantesche navi cisterna, lunghe anche tre campi di calcio, con a bordo, secondo stime del settore, abbastanza gas da illuminare 70mila case per un anno. Ci vogliono però strutture adatte per ricevere il carburante refrigerato e riscaldarlo poi allo stato gassoso. L’Europa ha in funzione circa due dozzine di questi terminali, di cui, paradossalmente, nessuno attivo nella sua più grande economia, la Germania, che tuttavia sta cercando di rimediare. Berlino progetta di costruire quattro rigassificatori e affittarne diversi su piattaforme galleggianti. Non è chiaro, però, se entreranno in funzione abbastanza presto da essere d’aiuto quest’inverno. L’Italia, altro paese molto dipendente dal gas russo, invece ne ha tre: in Liguria a Panigaglia, a Livorno e Porto Viro, in provincia di Rovigo. Il governo vuole istallarne altri due, su navi al largo di Ravenna e Piombino (quest’ultimo ancora in provincia di Livorno, e per questo gli abitanti si oppongono).

Questi impianti, spiega il ministro della transizione ecologica, Roberto Cingolani, sono decisivi per l’indipendenza dalla Russia. Secondo Cingolani, nel caso più estremo, cioè quello in cui Mosca chiudesse del tutto i rubinetti, all’Italia verrebbero a mancare tra i 30 e i 60 milioni di metri cubi di gas al giorno. In realtà, sembra una stima piuttosto prudente. Questo perché, stando ai dati del think tank milanese Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), da maggio le importazioni di gas russo stanno abbondantemente sotto i 60 milioni di metri cubi al giorno e non hanno quasi mai superato i 40 milioni tra luglio e agosto.

Le tre vie

Nel frattempo gli stoccaggi sono in linea con quelli dell’anno scorso. La vera emergenza, almeno per il momento, è quella dei prezzi. L’Europa sta introducendo rimedi che porterebbero a nuove regole del mercato energetico. La misura più immediata è la possibilità di slegare il costo dell’elettricità da quello del metano: il prezzo della corrente, infatti, si basa sul costo marginale della fonte più costosa, ossia il gas, anche se viene ricavata dal nucleare o da rinnovabili, oggi meno care. Poi ci sono in ballo tre tipi di price cap, il tetto al prezzo del gas, per riportare le quotazioni a livelli meno esorbitanti. In ognuna, però, sono presenti ostacoli. La prima prevede di introdurre un tetto al prezzo del gas importato in Europa, una misura applicata a tutti i fornitori. E a questo punto dovrebbe essere chiaro a quale rischio si va incontro. Sono i prezzi così alti ad attirare tutte quelle navi di gnl americano in Europa. Le stesse navi, abbassando i prezzi, potrebbero salpare di nuovo verso l’Asia, lasciandoci a secco. Quindi bisogna agire con cautela, altrimenti il mercato asiatico potrebbe risultare più attraente.

L’altra opzione è quella caldeggiata da Mario Draghi: tetto sul prezzo, ma solo per le forniture che arrivano dalla Russia, con la possibilità di estendere il limite anche al petrolio, come chiederebbero gli Stati Uniti. Di fatto, si tratta di un’ulteriore sanzione alla Russia, e dunque di un provvedimento che suscita qualche timore, soprattutto in Germania. Il rischio è che il Cremlino reagisca chiudendo definitivamente il gasdotto Nordstream. Tra gli analisti, qualcuno fa notare che le esportazioni di gas in realtà contano molto meno di quelle del petrolio. L’anno scorso hanno totalizzato solo il 2% del Pil russo, si legge su un report della Banca centrale austriaca. Dunque Putin potrebbe chiudere i rubinetti convinto di causare più danni all’Europa che al proprio paese. Ma con prezzi così alti, è più probabile che non lo faccia. Esportando quantità minime, tiene l’Europa sotto pressione e incassa liquidità preziosissima. Un tetto al prezzo potrebbe spostare l’equilibrio e spingere a chiudere.

L’ultima opzione è il price cap nazionale, come in Spagna, dove aziende e cittadini pagano un prezzo calmierato e il governo versa la differenza. Però si creano distorsioni sul mercato europeo e Madrid ha ottenuto il via libera anche perché le sue griglie energetiche sono poco connesse al resto del continente. L’altro scoglio è il bilancio degli stati. In Spagna la misura costa 6,3 miliardi di euro: tutto sommato, un prezzo abbordabile, ma solo perché il gas non è tra le fonti più importanti nel mix energetico. In Italia e Germania peserebbe molto di più.

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