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Licenziamenti, meno Ipo, investimenti in calo: dentro l’inverno delle startup. Che per ora non tocca l’Italia

Nell’estate del 2013, un anonimo imprenditore creò un blog su Tumblr. Lo intitolò: La mia startup ha 30 giorni di vita. In pochi giorni la pagina divenne oggetto di culto. Ne scrissero testate come The Atlantic, ne parlò la Silicon Valley. Non perché la fine di una startup fosse un fatto inaudito: le ricerche calcolano il tasso di fallimento tra il 70 e il 90%. E nemmeno perché l’anonimo criticava l’acceleratore “molto conosciuto” con cui aveva collaborato (“l’unica cosa che ha accelerato è stata la nostra capacità di partecipare al gioco delle startup”) e gli investitori che erano entrati in un’azienda “ben avviata” e “redditizia” e avevano contribuito “a farla schiantare”. Semmai, perché in un ambiente dominato dal tecno-ottimismo parlare di fallimento – ammettere di “essere sopraffatti” e di “avere paura” – era un atto rivoluzionario.

“Nel mondo delle startup, il tono dei discorsi è: ‘Il futuro è così luminoso che mi servono gli occhiali da sole’. Non avevo mai sentito nessuno parlare così”, dichiarò un imprenditore newyorkese alla Cnn. Nella narrazione della Silicon Valley, il fallimento è ammesso solo come preludio a una storia di riscatto. Come nel caso di Instagram, nata dalle ceneri di una startup per il check-in, o di Twitter, in origine un servizio per contenuti audio. Oppure in quello di Max Levchin, che fondò PayPal al quinto tentativo. Perfino FailCon, l’evento dedicato alle startup andate male, si definisce in termini ottimistici: “Una conferenza per aiutare i fondatori di startup a imparare dai fallimenti, perché possano insistere e crescere più in fretta”.

La scoperta del pessimismo

A quasi dieci anni di distanza, il blog dell’anonimo non è mai stato così attuale. Perché il 2022 ha costretto la Silicon Valley a sdoganare il pessimismo. Alcune testate americane hanno parlato di ‘inverno delle startup’. “Il sentimento generale è il più negativo dallo scoppio della bolla delle dot com”, ha scritto su Twitter l’investitore David Sacks.

Lo si è capito già in primavera, quando Sequoia – fondo che ha investito in Apple, Instagram, WhatsApp e Airbnb – ha inviato alle società nel suo portafoglio una presentazione intitolata Adapting to Endure: ‘Adattarsi per resistere’. Il documento, visionato da alcune testate statunitensi, descriveva l’attualità come “un crogiolo” di incertezza e cambiamenti e avvertiva di non aspettarsi una ripresa rapida come quella seguita allo scoppio della pandemia: gli strumenti di politica monetaria e fiscale che avevano alimentato la ripartenza, spiegava, erano “esauriti”. Il sito The Information ha paragonato il rapporto a quello che lo stesso fondo inviò nel 2008, all’inizio della Grande Recessione: R.I.P. Good Times, ‘Addio ai bei tempi’.

I mesi successivi hanno dato ragione agli analisti di Sequoia. Nel rapporto sulle quotazioni in Borsa di Ey si legge che le offerte pubbliche iniziali (Ipo) sono diminuite del 45% rispetto al 2021, il denaro raccolto addirittura del 61%. Nel 2021 dieci società tecnologiche avevano raccolto più di un miliardo di dollari al momento della quotazione a Wall Street. Nel 2022 una sola ha superato i 100 milioni. Molti di coloro che avevano programmato l’approdo in Borsa si sono tirati indietro di fronte all’andamento del Nasdaq: l’indice tecnologico di New York ha perso il 33% e ha chiuso il peggior anno dall’inizio della Grande Recessione. Le aziende tecnologiche hanno bruciato in tutto 7.400 miliardi, le sole Apple, Amazon, Microsoft e Meta quasi tremila. Il 2022, ha concluso un’analisi Axios, è stato il peggiore anno per le Ipo dal 1990.

Crisi o rimbalzo

Non è andata meglio ai grandi fondi. A novembre, secondo una fonte citata dal Financial Times, Tiger Global aveva perso più del 54% rispetto al 1 gennaio, a causa di investimenti su aziende tecnologiche e cinesi. SoftBank ha perso più di 23 miliardi di dollari solo nel secondo trimestre dell’anno, di cui 21,6 miliardi riconducibili al suo Vision Fund, il più grande fondo dedicato all’industria tecnologica. Abbastanza da convincere il fondatore, Masayoshi Son, a ridurre le operazioni del 50-75% e a cambiare strategia: meno scommesse miliardarie, più investimenti da alcune decine di milioni in vari settori e vari paesi.

Di certo le aziende tecnologiche hanno risentito anche di problemi comuni a tutta l’economia: instabilità geopolitica, caro energia, problemi nelle catene di fornitura. Il settore, però, sembra avere anche problemi tutti suoi. Secondo analisti come Brian Gould di Capital.com ci sono “buoni motivi per ritenere” che nel 2020 e nel 2021, quando le persone si spostavano in massa online, le aziende del settore tecnologico siano state “sopravvalutate”. Nel caso di titoli “da lockdown”, come Zoom, “questa è quasi una certezza”.

Come rileva l’Economist, poi, le startup tecnologiche sono state più colpite di altre dall’aumento dei tassi di interesse, imposto per contrastare l’inflazione. Il maggiore costo del denaro ha ridotto il valore attuale dei profitti attesi dalle aziende, spesso previsti per un futuro lontano. Molti possibili investitori hanno iniziato a guardare altrove. Secondo Pitchbook, nel 2022 gli investimenti globali da venture capital si sono ridotti di un terzo rispetto all’anno precedente. Negli Stati Uniti, il più importante mercato mondiale, sono passati da 343 a 230 miliardi di dollari.

La diminuzione dei capitali a disposizione ha messo in crisi soprattutto le aziende che avevano rimandato la ricerca di un equilibrio finanziario. Per anni gli investitori hanno chiesto alle startup di crescere a ogni costo. Gli imprenditori si affannavano allora a comprare altre società e ad allargare il personale. Alcuni hanno compiuto acquisizioni frettolose, in diverse aziende la qualità del lavoro è calata. I capitali venivano raccolti in tempi rapidi, ma dilapidati con la stessa velocità.

Un anno di licenziamenti

Chi doveva bruciare soldi per andare avanti ha dovuto ridurre i costi: meno spese sul marketing, progetti cancellati, tagli al personale. Secondo il sito specializzato Layoffs.fyi, nel 2022 le startup americane sostenute da venture capital hanno licenziato 35mila persone. Tra loro c’è Robinhood, che si è quotata nel luglio 2021 a una valutazione di 32 miliardi. Da allora ha perso i tre quarti del suo valore, ha tagliato il 9% del personale ad aprile 2022, poi quasi un quarto ad agosto.

Pur di ottenere capitali, diversi imprenditori si sono rassegnati a valutazioni più basse rispetto ai round di finanziamento precedenti. Nel 2021 la svedese Klarna era la fintech con il più alto valore in Europa: più di 45 miliardi di dollari, che a luglio sono diventati 6,7. Il titolo è passato a Checkout.com, valutata 40 miliardi a gennaio 2022. Poche settimane fa, secondo il Financial Times, la stessa società ha ridotto la valutazione a 11 miliardi.

Altri ex unicorni – startup non ancora quotate con una valutazione di almeno un miliardo di dollari – non esistono più. Electric Last Mile Solutions, società di veicoli elettrici, ha dichiarato bancarotta in estate. Argo Ai, startup di guida autonoma sostenuta da Ford e Volkswagen, ha chiuso a ottobre. La piattaforma di criptovalute Ftx, che un anno fa valeva 32 miliardi, è fallita a novembre. Dopo un 2022 nero, non è detto che il 2023 sia l’anno della ripresa. “Prima di investire, vuoi assicurarti che il mercato abbia raggiunto il fondo, e qui pensano che non sia ancora successo”, ha detto al Wall Street Journal Jesse Hurley, head of global funding della Silicon Valley Bank.

Unicorni addio

Esiste però anche un partito degli ottimisti. “Si può ritenere che la recessione sia transitoria”, afferma Giuseppe Donvito, partner della società di venture capital p101. “L’attività di venture capital è per definizione paziente e ha un orizzonte di lungo o lunghissimo termine”. Quanto alla morte degli unicorni, Donvito afferma che “sembra sbiadito l’interesse verso questo concetto, a volte associato a valutazioni gonfiate e non corrispondenti ai fondamenti societari. Secondo Pitchbook, nel 2021 sono nati oltre 580 nuovi unicorni, con un aumento del 120% rispetto all’anno precedente”. In sostanza, 1,5 al giorno. “Il 1 novembre 2022 se ne contavano 1.230. Una corsa ormai priva di senso. Gli unicorni hanno smesso di essere animali rari”. L’attenzione si sposterebbe allora verso una nuova creatura: il centauro. Vale a dire, “un’azienda che raggiunge i 100 milioni di dollari di ricavi ricorrenti annuali: una razza d’élite nella crescente mandria degli unicorni”.

Qualcuno, nella Silicon Valley, arriva a dire che gli stravolgimenti del 2022 porteranno a una nuova età dell’oro per le startup. La teoria si può riassumere così: i licenziamenti di massa compiuti dalle grandi aziende tecnologiche tra il 2022 e l’inizio del 2023 – dai 18mila tagli di Amazon agli 11mila di Meta, dai 10mila di Microsoft ai 12mila di Google/Alphabet – hanno messo in circolazione una grande quantità di talenti, spesso sottoutilizzati dalle multinazionali, che potrebbero confluire in aziende più giovani e farne la fortuna.

Una nuova generazione di startup

Il 4 gennaio l’agenzia Reuters ha pubblicato un articolo intitolato: ‘Le startup sbocciano dalle ceneri delle epurazioni delle big tech’. C’è chi ha usato la liquidazione incassata da Meta per dedicarsi a una startup di pagamenti basati sulla blockchain. Altri si sono candidati a uno dei 20 assegni da 100mila dollari messi a disposizione dal fondo Day One Ventures, destinati alle più promettenti aziende fondate dai licenziati delle cosiddette big tech. “Molte grandi aziende sono state create in tempi relativamente bui”, ha ricordato Harry Nelis, partner della società di investimento Accel. Un esempio per tutti: tra il 2008 e il 2010, negli anni della Grande Recessione, sono nate Airbnb, Slack, WhatsApp, Square, Uber, Instagram e Pinterest.

Le startup europee, in particolare, potrebbero essere equipaggiate per resistere a una crisi. Secondo un’analisi dell’Economist, sono più snelle rispetto alle controparti americane. Bruciano più lentamente i fondi, insomma, e quindi dovrebbero avere conservato buona parte delle risorse accumulate durante l’euforia da investimenti del 2021. Poiché hanno a disposizione mercati nazionali più piccoli, poi, sono quasi obbligate ad allargarsi all’estero. La società di venture capital Atomico ha calcolato che l’80% delle aziende tecnologiche europee è internazionale, contro il 61% di quelle della Silicon Valley. E in momenti difficili, la diversificazione geografica è un vantaggio. Molte startup, inoltre, lavorano in settori che sembrano poter solo crescere in futuro. In base alla classificazione di Credit Suisse, un quarto degli unicorni europei rientra nella categoria sostenibilità e potrebbe quindi beneficiare degli impegni contro il cambiamento climatico.

L’Italia è un’eccezione

L’Italia, in particolare, al momento è un’eccezione rispetto al resto del mondo. Secondo uno studio di Ey, se nel 2022 gli investimenti da venture capital sono diminuiti in America e sono rimasti stabili nei paesi europei più maturi, come Germania e Regno Unito, da noi sono aumentati del 67% e hanno superato per la prima volta i due miliardi di euro. Un record dovuto in buona parte a due settori – il fintech ha messo assieme 712 milioni, il settore energia e riciclo 346 – e a una manciata di società. Scalapay ha raccolto 215 milioni, Newcleo 300. Satispay è diventata un unicorno dopo un round da 320. La crescita ha spinto Cassa Depositi e Prestiti a formulare, per il 2025, l’obiettivo dei nove miliardi di euro.

Certo, alcuni limiti rimangono. Lo stesso rapporto di Ey definisce “meno rassicuranti” i dati relativi al Sud e Centro Italia. Più del 50% dei capitali sono finiti in Lombardia, nessuna regione del Mezzogiorno è tra le prime cinque per finanziamenti. Non per mancanza di aziende innovative, ma per “carenza di potenziali investitori”. Mentre Gianluca Galgano, startup and venture capital leader di Ey Italia, rileva che i numeri del nostro Paese sono ancora molto inferiori rispetto a quelli dei principali mercati europei. “In Italia l’investimento pro capite sul venture capital nel 2022 è stato di 35 euro, contro i 61 della Spagna e i circa 150 di francesi e tedeschi. Lontanissimo il Regno Unito, con 369”.

“Un fenomeno salutare”

Secondo una ricerca di Cb Insights, in Europa come nel resto del mondo gli investitori ora preferiscono finanziare società in fase iniziale piuttosto che aziende mature, più esposte alla volatilità dei mercati. “Non è uno scenario come quello del 2001 o del 2008”, ha detto al Wsj John Chambers, investitore ed ex amministratore delegato di Cisco Systems. “Le startup di minore livello non verranno finanziate, ma penso che sia un fenomeno salutare”.

Tanti, insomma, dovranno rassegnarsi a fallire. Come l’anonimo imprenditore del blog, che, due anni dopo il fallimento, tornò su Tumblr per scrivere un ultimo messaggio. Lo intitolò: ‘Redenzione e resurrezione’. Spiegò di avere dato vita a una nuova azienda. “Non voglio fare autopromozione”, scrisse. “Voglio solo che sappiate che c’è vita anche dopo la morte di una startup. C’è redenzione. Sopravviverete anche voi. E anche per voi la seconda volta sarà ancora più bella della prima”.

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