“Il miglior ristorante? Non è dove assaggi i piatti migliori ma dove passi una serata indimenticabile”

Dominique Antognoni – BrandVoice | Paid program

Oggi l’alta ristorazione deve essere coinvolgente, vibrante, perfetta, indimenticabile. Vuol dire sogni ed eleganza, bellezza e design, atmosfere e profumi, sorrisi e spensieratezza, glamour e chiacchiericcio, frivolezza e batticuore. E poi sì, ci sono anche i piatti.

“Vi chiederete di cosa mi occupo. Provo a rispondere con una domanda: cosa si intende per il miglior ristorante? Quello dove assaggi i piatti migliori oppure quello dove passi una serata indimenticabile? La seconda.

Ed è qui che inizia il mio lavoro, aiutare i ristoratori a far innescare la quinta, visto che oggi la loro attività vuol dire molto più che mangiare da dio: le persone vogliono tutto. Ecco, io cerco di far sì che nei loro ristoranti ci sia tutto, in tal modo da rendere la serata indimenticabile e che i clienti tornino, che il posto diventi aspirazionale. E convincerli che la clientela esigente e dai gusti sicuri ti punisce per ogni menù anonimo: non hai più alcuna possibilità di presentare dei piatti senza una forte personalità.

Dominique Antognoni
Dominique Antognoni

 

Per questo ci vuole una fortissima identità e che il locale gli rappresenti totalmente e visceralmente, altrimenti né loro né i clienti si sentiranno al proprio agio e ancor meno coinvolti. Oggi le persone vengono da te per sentirsi rilassate, spensierate, si esce a cena per passare una serata piacevole e intensa, possibilmente carica di emozioni. Le donne si vestono in maniera scintillante, vogliono brillare e vibrare, assaggiare e miagolare per il piacere. Ecco, tutto questo manca nella gran parte dei ristoranti, soprattutto laddove lo chef si crede l’ombelico del mondo. Che errore, è il cliente a essere l’ombelico del mondo. Indovinate? Nei locali dove il cuoco si crede una divinità regna la rigidità, hanno chiuso, oppure non vanno benissimo.

“Ideale sarebbe avere ben chiaro in mente il tipo di clientela che piacerebbe avere e il messaggio che si vuole trasmettere in tal modo che le persone possano capire fin da subito dove si trovano: in un ristorante classico, modaiolo, moderno, giovanile.

Vale anche per il menù: il buono deve arrivarti appena ti siedi, per farti intendere che passerai una serata vibrante. Per questo ripeto sempre che le amuse bouche siano fondamentali: da una parte rappresentano il biglietto da visita dello chef, dall’altra il cliente si fa subito un’idea sulla cena. Calare gli assi con i primi assaggi incuriosisce, fa salire la aspettative. In caso contrario, cominci a preoccuparti e non vedi l’ora che finisca, il che è un dramma”.

“Non ho alcun dubbio che nei prossimi anni avrà successo chi metterà l’accento sull’accoglienza. Può sembrare un paradosso, ma ormai il cibo è secondario, anche perché si dà per scontata la qualità. Un esempio? Il tristellato Da Vittorio. Nessuno parla del loro menù o dei piatti, seppur magniloquenti. Il motivo? Tutti rimangono incantati e ammaliati dal modo nel quale ti trattano. Accade spesso che ci sia Chicco Cerea in persona a raccogliere le briciole al tavolo. In un posto del genere torni mille volte, così come non torni dove il cuoco si crede una divinità.

Fateci caso: i ristoranti dove gira tutto attorno allo chef sono sempre vuoti, oppure hanno chiuso. Quelli con un servizio troppo rigido, quelli troppo freddi e silenziosi non piacciono alla clientela, anzi, innervosiscono”.

“C’è una gran voglia di ristorazione classica intesa sia come piatti, sia come atmosfera. Jay Rayner, il più influente critico europeo (scrive per The Guardian), racconta come a Londra ci siano delle attese bibliche per uno di quei risto già molto frequentati e ambiti negli anni Settanta. “Il menù è lo stesso, difatti ti servono ancora l’anatra all’arancia, però il servizio è straordinario e si va per questo, per immergerti in quella atmosfera del passato, con i camerieri che conoscevano a memoria i tuoi gusti”. A Milano pian piano si torna a questo modo di fare ristorazione. Il motivo? Le persone con una forte disponibilità economica desiderano dei piatti classici, diretti, riconoscibili, senza sorprese, e un servizio perfetto. La locanda alla Scala, aperta l’anno scorso, ne è l’esempio: il maitre e uno dei soci, Alberto Tasinato, conosce i clienti uno per uno, i loro gusti, i comportamenti, le famiglie: tornano per il servizio, non per quello che si mangia. Sa come conquistarli, difatti quando si arriva al dessert passa con il carrello dei dolci, proprio come negli anni sessanta”.

“Spesso ci si chiede cosa sia il fine dining e altrettanto spesso si finisce per banalizzare il concetto. Giulia Liu di Gong, forse la miglior donna patron della ristorazione milanese e italiana, mi disse che secondo lei significa prendersi cura di te dal momento che entri nel suo locale fino a quando ringrazi e torni a casa. Da lei tutto questo lo percepisci. Perché? Perché non ci sono incongruenze, è tutto armonioso, dalle luci soffuse al servizio felpato, dai piatti al ritmo del locale: difatti le good vibes abbondano, e le persone cercano proprio questo”. Si sta da dio e si mangia altrettanto. Detta così pare elementare e invece non lo è, altrimenti tutti i ristoranti sarebbero pieni”.

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