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Oscurare il sole: perché simulare gli effetti delle eruzioni vulcaniche può salvarci dal cambiamento climatico

Pinatubo dormiva da più di quattrocento anni, sommerso nella giungla tropicale. Era un vulcano o una semplice montagna? I geologi ormai lo avevano quasi dimenticato. E lo avevano dimenticato anche quasi tutti i filippini: gli indigeni Aeta, che popolavano ancora a migliaia quelle foreste, e i loro compatrioti più moderni che vivevano nelle metropoli vicine. Ma un pomeriggio di aprile del 1991 Pinatubo si scrollò di dosso quel torpore. La montagna era un vulcano e ne diede un’esibizione furibonda: tremori, rimbombi, esplosioni di fumo e vapore. Un crescendo costante durato due mesi, fino a quando Pinatubo eruttò con forza sufficiente a espellere lava fusa a più di novecento chilometri orari. Sull’isola di Luzon fu necessario evacuare 250mila persone. Ma anche il resto del mondo subì presto le conseguenze del risveglio del vulcano filippino. Nel giro di qualche ora un fungo di cenere era salito a 38 chilometri d’altezza e si era infilato nella stratosfera: tonnellate di anidride carbonica solforosa e goccioline d’acqua, come uno specchio di gas che faceva rimbalzare indietro i raggi del sole. Questa specie di nuvola di aerosol rimase intorno alla Terra per quasi due anni ed ebbe due enormi conseguenze. Per prima cosa scombussolò le piogge in tutto il mondo. Ci fu infatti lo zampino di Pinatubo in varie sciagure climatiche accadute tra il 1992 e il 1993, come la siccità che devastò il Sahel in Africa e la grande alluvione dei fiumi Mississippi e Missouri nel Midwest americano. In compenso, per un po’ di tempo Pinatubo rese la Terra molto più fresca.

Nel secolo precedente la temperatura media era cresciuta di tre quarti di grado Celsius, boccone indigesto del progresso ottenuto grazie all’attività industriale. L’eruzione del Pinatubo, tuttavia, aveva raffreddato il clima di quasi altrettanto in un solo anno. Ai geofisici quella nube di cenere vulcanica fornì così parecchie risposte. Aiutò a capire e a riflettere. Ecco che cosa potrebbe accadere se tentassimo di combattere il riscaldamento globale alterando in modo deliberato il clima della Terra, pensarono. Da un lato temperature più basse, dall’altro il rischio di conseguenze imprevedibili. Il vulcano sembrò darci questo consiglio: “Non fate gli apprendisti stregoni. Niente scorciatoie. Imboccate la strada maestra, più difficile ma più sicura”. Ovviamente la strada maestra era quella di cambiare il nostro modo di produrre. Abbattere la dipendenza dai combustibili fossili e saltare sul carro delle rinnovabili. Ma la rivoluzione verde non ha costi notevoli, danneggia diverse categorie e porta vantaggi non immediati, ma differiti nel tempo.

E allora lasciamo perdere quell’esplosione nella giunga filippina e trasferiamoci ai giorni nostri. Che cosa è successo dall’aprile 1991 a oggi? Il termometro è salito ancora – oggi misura 1,2 gradi in più rispetto all’inizio dell’epoca industriale – e il clima è diventato politicamente rilevante. Nel 2015, con gli accordi internazionali di Parigi, il mondo ha preso un impegno solenne: limitare tra 1,5 e 2 gradi l’aumento della temperatura globale. Per riuscirci, ormai più di 100 paesi e 400 città dicono di voler raggiungere zero emissioni nette di anidride carbonica entro il 2050 o prima. Il problema è che non basta ancora. Anche se mantenute, le promesse fatte a Parigi non sono sufficienti. E tagli più ambiziosi possono ridurre i rischi, ma non eliminarli del tutto. La verità è che resta una notevole incertezza su quanti ulteriori cambiamenti climatici possa provocare una determinata quantità in più di gas serra. Perché anticipare il clima è cosa terribilmente complicata.

Un mondo che si limitasse a seguire le politiche oggi in vigore finirebbe probabilmente per essere (in media) quasi tre gradi più caldo. Una catastrofe climatica la cui devastazione è intuibile già adesso. Il 2021 è stato segnato da un evento meteorologico estremo dopo l’altro. Luglio è stato il mese peggiore: secondo gli Usa, il più caldo mai registrato sulla Terra. Mentre in Belgio e Germania intere città erano trasformate in fiumi, centinaia di migliaia di cinesi venivano evacuati per sfuggire ad altre inondazioni nella provincia di Henan. Nella città di Zhengzhou, in tre giorni è venuta giù tanta pioggia quanta di solito ne cade in un anno. A Cizre, in Turchia, il 20 luglio il termometro ha raggiunto 49,1 gradi, la temperatura più alta mai sperimentata nel Paese. E poi il caldo senza precedenti in Nord America, lungo la costa settentrionale del Pacifico. Notti mediterranee in Finlandia con oltre 24 gradi, un altro record. E nell’Artico la copertura di ghiaccio marino si è ridotta come mai era successo nelle estati precedenti.

Se ci fosse ancora qualche dubbio, il monito del’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change, il gruppo intergovernativo sul clima delle Nazioni unite che rappresenta la massima autorità sul riscaldamento globale) è dolorosamente chiaro: siamo in ritardo e gli obiettivi fissati – anche se raggiunti – potrebbero non essere sufficienti per evitare cambiamenti catastrofici del pianeta.

Eppure in quell’ultimo report dell’Ipcc, così esauriente, manca qualcosa. Come se un medico ignorasse di proposito un rimedio, sperimentale e rischioso, ma forse in grado di salvarci la vita. Qualcosa di cui la comunità scientifica, in realtà, discute da anni, ma che l’Ipcc non ha inserito nei punti cruciali del suo rapporto. L’arma estrema, da imbracciare se tutto il resto fallisce, che fa tornare alla mente il vulcano Pinatubo. Contro il riscaldamento della Terra c’è chi ipotizza di riprodurre artificialmente alcune conseguenze di quell’esplosione nelle Filippine. Si tratta di iniettare nella stratosfera le stesse particelle di anidride solforosa, che poi si diffonderebbero intorno al pianeta riflettendo nello spazio i raggi solari. La tecnica si chiama geoingegneria solare. È controversa, rischiosa, ma alcuni scienziati credono che valga la pena di esplorarla. Del resto basta porsi una semplice domanda: “Cosa accadrebbe se le emissioni venissero ridotte troppo poco e la temperatura continuasse ad aumentare?”.

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Un cartello appeso da un agricoltore californiano durante un’ondata di siccità: “Il cibo cresce dove l’acqua scorre” (foto David McNew/Getty Images)

A volte, spiega il professor Simon Lewis, dell’University college di Londra, ci dimentichiamo quanto velocemente sia cresciuta la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera, che è la causa dell’effetto serra e del riscaldamento del clima. Nemmeno i lockdown durante la pandemia ne hanno arrestato la corsa. “Ci sono voluti oltre 200 anni per aumentare la quantità di CO2 del 25% e solo 30 anni per raggiungere il 50% in più rispetto ai livelli preindustriali”, aggiunge Lewis. “Un cambiamento drammatico. È come se un meteorite umano avesse colpito la Terra”.

Conviene quindi tenersi pronta una exit strategy. Yale e Harvard, in uno studio recente, hanno provato a esaminare i dettagli di un ipotetico programma di geoingegneria solare. Il piano immaginato è decisamente ambizioso. I ricercatori stimano che in quindici anni permetterebbe di raffreddare il nostro pianeta di 0,3 gradi Celsius. Per eseguirlo servirebbero fino a 95 aerei, che effettuerebbero circa 60mila voli l’anno per spargere centinaia di migliaia di tonnellate di anidride solforosa ad almeno 20 chilometri di altitudine, cioè nella stratosfera. Un’altra strategia vagliata dagli scienziati è il cosiddetto thinning, in italiano ‘diradamento’. Questa tecnica prevede di intervenire tra i 12 e i 16 chilometri d’altezza, quindi ancora molto in alto, ma dentro l’atmosfera. L’idea è quella di modificare, assottigliandola, la composizione delle nuvole, per consentire a più calore di fuoriuscire dall’atmosfera. Altri scienziati, poi, immaginano un altro trucco e scendono molto più in basso, a un’altitudine che va da 0 a 3mila metri. Questa volta si tratta di illuminare le nuvole e creare una barriera riflettente tra il sole e l’oceano. Il piano consisterebbe nello spruzzare (magari con pompe galleggianti a energia rinnovabile) particelle di sale verso l’alto, così da rendere le nuvole più brillanti. Si formerebbe così una specie di riverbero che spingerebbe indietro la luce del sole. Utile, ad esempio, a preservare il ghiaccio dell’Artico.

L’università di Harvard fa sul serio. Quest’anno era pronta a dare un’accelerata notevole alle ricerche sul campo. I suoi scienziati, insieme a quelli dell’Esrange space center (un centro di ricerca svedese), avrebbero dovuto far volare sopra il cielo della cittadina scandinava di Kiruna, a un’altezza di 20mila metri, un pallone sonda carico di equipaggiamento scientifico. Una missione di prova in cui Harvard avrebbe testato comandi e strumentazione, a cui far seguire un secondo volo per rilasciare una modesta quantità di polvere di carbonato di calcio nella stratosfera. Un piccolo assaggio di geoingegneria solare, insomma. Ma ad aprile l’esperimento è stato annullato, a causa dell’opposizione di molti gruppi ambientalisti (tra cui Greenpeace) e di comitati di pressione locali.

Meglio chiarirlo subito: la geoingegneria solare ha molti nemici nel mondo. Chi è contrario crede che i rischi superino di gran lunga i benefici. Uno dei critici di maggiore spicco è Raymond Pierrehumbert, professore di fisica all’università di Oxford. La prima obiezione del professore è che questo tipo di exit strategy – se anche funzionasse nel breve periodo – potrebbe distogliere i Paesi dai loro sforzi per decarbonizzare l’economia mondiale, “l’unica vera soluzione alla crisi climatica”. Poi c’è un altro problema enorme, spiega ancora Pierrehumbert: nel caso in cui davvero la Terra si trovasse a dipendere dalla geoingegneria solare, se questa, per qualsiasi motivo, dovesse essere di colpo interrotta, scatenerebbe un aumento immediato e difficilmente reversibile della temperatura. Occorre infatti ricordare che alterare la luce del Sole ha un impatto sulla chimica dell’atmosfera e la circolazione delle piogge. Mancano ricerche adeguate sulle reazioni avverse, che quindi potrebbero essere imprevedibili.

C’è il rischio, secondo la professoressa Marion Hourdequin, membro dell’accademia nazionale americana delle discipline scientifiche, di trasformare il corso del monsone asiatico, danneggiando la produttività agricola di diverse regioni. Si potrebbero, insomma, ottenere effetti molto poco coerenti: da una parte correggere il clima di un Paese, dall’altra far sì che una regione che sta già soffrendo di siccità abbia ancora meno acqua. Va da sé che raggiungere un’intesa a livello internazionale sarà fondamentale, anche se parecchio complicato. Un Paese o un gruppo di Paesi potrebbero decidere di procedere da soli, ma le loro azioni avrebbero un impatto globale, oltre che regionale. E questo causerebbe tensioni con i paesi rimasti a guardare.

Una volta soppesati rischi e impedimenti, per il professor Pierrehumbert il verdetto è chiaro: “Oggi come oggi non c’è posto per la geoingegneria solare nel portafoglio di risposte al riscaldamento globale. È inaccettabile anche solo il rischio che l’espansione di queste ricerche possa minare gli sforzi per abbattere la dipendenza dai combustibili fossili. In futuro, forse, la geoingegneria solare potrà avere un ruolo (molto piccolo), ma solo dopo che le emissioni nette di anidride carbonica saranno state portate a zero”. 

Il problema, però, è che il mondo continua a scaldarsi. E così, anche alcuni ambientalisti chiedono di esplorare strade che non siano basate unicamente sulla riduzione di CO2. “Queste ricerche potranno essere rischiose. Ma non farle è ancora più rischioso”. Parola di Steven Hamburg dell’Environmental defense fund, una delle principali organizzazioni per l’ambiente americane. 

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