Le storie d’amore in cucina non sono sempre quelle che nascono tra due persone. Esistono legami solidi tra una persona e il ‘suo’ ristorante per la vita, anche se vi lavora come dipendente. Di rado – e sono case history imprenditoriali affascinanti – accade che, dopo anni passati ai fornelli, uno chef riesca a diventare proprietario del locale in cui lavora, ma è piuttosto inusuale che queste dinamiche si verifichino nel mondo del fine dining. Ancor più quando il discorso si restringe alla nicchia dei ristoranti con più di una stella Michelin. Ecco perché è singolare il caso dello chef Riccardo Monco, che dopo 30 anni passati nella tristellata cucina dell’Enoteca Pinchiorri, a Firenze, da qualche tempo è entrato nella proprietà dello storico locale, aperto nel 1972 da Annie Féolde e Giorgio Pinchiorri.
Insieme a lui, ad acquisire quote dell’Enoteca Pinchiorri sono stati anche il direttore di sala Alessandro Tomberli e la responsabile amministrativa Caterina Zoppoli. Naturalmente la maggioranza resta nelle mani del fondatore Pinchiorri, che – con il cambio di regime societario, da Sas a Srl – resta amministratore unico. In quanto a Feolde, dopo tantissime primavere passate ad aprire la sua abitazione a un pubblico internazionale di gourmet, per motivi di età è uscita dalla gestione attiva della società.
Dopo aver lavorato a stretto contatto con due icone del bon vivre come Feolde e Pinchiorri – emiliano di nascita, toscano d’adozione –, lo chef ha iniziato a vestire i panni dell’imprenditore, pur senza rinunciare alla sua mano nella cucina di via Ghibellina. “Tutto è iniziato tre o quattro anni fa ed è stata una richiesta da parte dell’azienda, una proposta per consacrare gli anni passati insieme”, racconta Monco, che ha la stessa età dell’Enoteca e ha iniziato a lavorarvi nel 1993, quando ancora lo chef era Carlo Cracco. In un settore in cui sono più frequenti passaggi generazionali o acquisizioni da parte di grandi società, chiamare i dipendenti di lungo corso a diventare parte della società non è usuale.
Il nuovo assetto dell’Enoteca Pinchiorri
“È stato un passaggio totalmente naturale”, racconta ancora lo chef milanese, “perché quando si lavora da tanti anni in una stessa azienda è normale sentirsene parte. Soprattutto se quest’azienda ha uno spessore e una consapevolezza delle proprie forze che la pone al di sopra delle mode gastronomiche, dei momenti e delle tendenze”. Ma come è cambiata l’Enoteca Pinchiorri da quando lo chef e il maître sono diventati a tutti gli effetti co-proprietari? “Eravamo e restiamo una squadra, in cui ognuno è responsabile del proprio settore, si occupa del proprio compito e svolge il proprio lavoro, ma mai a compartimenti stagni: il confronto quotidiano tra le persone è indispensabile. Vanno pensate strategie a lungo termine, è vero, ma alcune scelte vanno prese giorno per giorno. Ricordo una frase che Giorgio Pinchiorri mi ha sempre detto e mi ripete ogni anno: ‘Il grande ristorante si vede alla fine dell’anno’, ossia i conti devono tornare. Ebbene, la fortuna di lavorare da così tanto tempo in Enoteca ci ha permesso di capire come gestire il locale quando siamo stati chiamati a farlo”.
In fondo, a Riccardo Monco l’occhio aziendale non ha mai fatto difetto. “Essere un bravo chef a livello di budget, di spesa e di gestione del personale è qualcosa che ho sempre portato avanti, per non mettere in difficoltà l’azienda. Anche prima, come chef, compivo le mie scelte con un occhio da imprenditore: occorre delegare e condividere, come faccio con lo chef Alessandro Della Tommasina, perché nessuno fa niente da solo”.
La storia di Riccardo Monco
Riccardo Monco è arrivato a Firenze da un tristellato parigino, lo storico Lucas Carton del maestro Alain Senderens, in anni in cui in Italia esisteva solo un ristorante con il massimo punteggio da parte della Michelin, quello di Gualtiero Marchesi a Milano. “Il panorama del fine dining mondiale era racchiuso in Europa, con la Francia a far da padrona”, racconta ancora lo chef Monco, “ed era lì che dovevi andare a imparare il mestiere. Devo molto a Senderens, è stato il primo a usare spezie e materie prime dal nord Africa e sulle ceneri della nouvelle cuisine ha iniziato a cucinare con la propria testa, diventando precursore degli abbinamenti col vino. Un giorno mi raccontò che l’Enoteca Pinchiorri aveva preso la terza stella e mi misi in contatto con Carlo Cracco. Ho iniziato con lui, come capopartita, e in poco tempo sono passato a primo chef. Il ruolo di Annie Féolde è stato enorme, per il successo dell’Enoteca: ha un dono raro legato all’accoglienza, e con lei il ristorante è diventato una ‘maison’. Rispetto a cinque anni fa oggi c’è più spazio a ricerca e contemporaneità. Madame Féolde aveva le sue idee e dovevamo rispettarle, adesso c’è più libertà di sperimentazione. Naturalmente, l’ispirazione al territorio resta fondamentale per dare riconoscibilità ai propri piatti. L’identità è per noi un imperativo”.
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