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“Lady Hammer”, la manager che ha partecipato alle più importanti operazioni della finanza italiana

Articolo tratto dal numero di ottobre 2021 di Forbes Italia. Abbonati!

Non è mai troppo tardi per una prima volta. Patrizia Micucci, prima donna a capo di una banca d’affari in Italia (Lehman Brothers, 2003), prima donna a guidare una banca (Société Générale, 2015) e, in questo scorcio del 2021, prima donna a ricevere il premio Alumna Luiss dell’anno. Classe 1959, la dottoressa Micucci (dopo si comprenderà la ragione del titolo), adesso managing director di Nb Aurora, società di investimento di Neuberger Berman, ha partecipato alle più importanti operazioni nella finanza italiana, dalla privatizzazione della Comit all’opa Lactalis su Parmalat, nonostante le barriere che in quel mondo esistevano (ed esistono) per le donne. “Il suo percorso, iniziato negli Usa e proseguito in Europa, tra Milano, Londra e Parigi, è un esempio virtuoso di talento, visione, creatività e determinazione, e rappresenta per le nostre studentesse e i nostri studenti un modello da seguire”, dice il presidente Luiss Vincenzo Boccia. 

Micucci, lei si sente un role model?

Non tocca a me dirlo. Ho iniziato a lavorare nell’investment banking negli Usa e lì sono pragmatici: se sei efficiente, produttivo e porti i risultati non guardano al genere o al colore della pelle. Quando sono tornata in Italia ho scoperto, invece, che essere donna era un altro modo per definirti. La maggiore difficoltà che ho trovato è stata essere ammessa al club esclusivo dove si decide il business, anche perché non facevo parte dell’establishment, né come famiglia né per il mio accento poco lombardo. Questo è un mondo dove, se vuoi emergere, devi dare la tua vita. Io ho rinunciato a tantissime cose, perché dovevo dimostrare quali fossero le mie competenze e le mie potenzialità. Ma io sono l’esempio perfetto che si può fare, che – se si vuole – si può riuscire e si può ‘arrivare’. 

E lei come c’è riuscita?

Con un differente approccio al lavoro. Allora, ad esempio, per un uomo che lavorava in una grande banca d’affari era semplice entrare in un meeting, c’era anche il vantaggio del brand. Io dovevo fare un lavoro extra, portare al tavolo idee frutto di pensiero laterale e di nottate passate sulle carte. Dopo una, due, tre, quattro volte che porti la soluzione a cui nessuno ha pensato e combatti per portarla avanti, allora iniziano a prenderti in considerazione. La verità è che io non mi sono mai arresa…

Per questo gli americani l’hanno ribattezzata Lady Hammer, Lady Martello.

Certo, non ho mai temuto di battere e ribattere per affermare le mie idee. Del resto, nella finanza non serve essere geni, non scopriamo certo le cellule staminali. E l’intelligenza è una dote che hanno in tanti. Quel che fa la differenza è la passione, la determinazione e il duro lavoro.

 Qual è stato e qual è il suo rapporto con la Luiss?

Devo veramente tantissimo a Luiss. Sono rimasta senza genitori quando avevo poco più di 15 anni. In quel momento ho smesso di essere figlia, non avevo più nessuna guida, non sapevo che cosa fosse il mondo. Non avevo punti di riferimento, né sapevo che direzione prendere. Devo dire che alla Luiss mi si è aperto un mondo. Per me che venivo da Foggia il massimo era tornare nella mia città e fare la dichiarazione dei redditi per chi non sapeva farla. E invece. Il preside di facoltà mi chiese di fare l’assistente di matematica finanziaria e poi ci fu l’occasione della mia vita: essere mandata negli Stati Uniti per fare il PhD, il dottorato di ricerca. Lì ho deciso di fare il master alla New York University grazie a una borsa di studio della Fiat. E così sono arrivata in Lehman alla fine degli anni Ottanta. Non è stato un traguardo cercato. Ho attraversato qualunque porta mi si aprisse, senza avere mai il timore di rinunciare alla mia comfort zone.

Come è arrivata alla scelta della Luiss?

Vuole la verità? Assolutamente per caso. Finito il liceo classico a Foggia, sapevo che avrei dovuto badare a me stessa, ed essere autosufficiente. Dopo un’adolescenza dolorosa, volevo scappare da Foggia, allontanarmi quanto più possibile. Mio padre era avvocato e quindi mi sono iscritta a giurisprudenza a Roma. Alloggiavo nel Collegio delle Orsoline e passavo spesso davanti alla sede della Luiss, vedevo quella splendida villa e pensavo: come sarebbe bello studiare qui. Ho presentato domanda, sono stata ammessa e ho mollato Giurisprudenza. Una grande stella mi ha guidata, quel cambiamento è stato la mia fortuna. 

C’è stato un episodio in cui ha sentito più forte la difficoltà di essere donna nel mondo maschile della finanza?

Uno? Ce ne sono decine! Le dico solo questo: nei meeting si cominciava con i saluti: “buongiorno dottore”, “buongiorno ingegnere” e quando arrivavano a me era sempre un “buongiorno signora”. Dopo una, due, tre volte, alla quarta ho detto: “Grazie, il mondo è pieno di dottori, ma i signori sono pochi”. A volte penso che in Italia avrei potuto fare di più. Se non avessi avuto l’opportunità di cominciare la mia carriera in una banca americana, è probabile che realtà simili della finanza italiana non mi avrebbero mai offerto una posizione analoga. Ricordo ancora quando, dopo decine di colloqui nel mio inglese stentato, sono stata invitata a partecipare a un pranzo con tutti i partner di Lehman sul rooftop della sede, con la Statua della Libertà davanti. Per me è stato come avere un’esperienza extracorporea. Mi domandavo: ma io che vengo da Foggia, che ci sto a fare qui, a Wall Street, nel cuore della finanza mondiale?

Non è cambiato nulla per le donne nella finanza italiana?

Qualcosa è sicuramente cambiato, ma c’è ancora molto da fare. Le donne sono ancora poche e le troviamo in funzioni di staff. Se i ceo sono ancora prevalentemente uomini è perché quando sono chiamati a scegliere un loro successore cercano qualcuno con le loro stesse caratteristiche, vogliono dei loro simili. Penso che le donne abbiano un approccio diverso al lavoro. C’è anche da dire che, uomini o donne, la finanza resta ancora un mondo chiuso. Se non fai parte del club, non entri nella stanza dei bottoni.  

E che cosa è cambiato per lei?

Sono nella seconda fase della mia carriera. Nella prima fase ero molto autocentrata, le operazioni che facevo erano strumenti per fare carriera, per avere la mia visibilità. Quando sono diventata ceo di Société Générale, mi sono chiesta: e adesso? A quel punto ho capito che bisogna cambiare paradigma, dedicare i propri sforzi e la propria professionalità per cambiare in meglio le cose.

Come lo sta facendo?

Con la mia attività in Neuberger Berman, gestendo un fondo per la crescita delle imprese italiane, e partecipando a LA4G, acronimo di Luiss Alumni for Growth, il fondo creato da laureati dal mio ateneo per supportare imprese e giovani talenti. Credo che, soprattutto in questo momento, l’obiettivo debba essere quello di convogliare il risparmio italiano a vantaggio di una crescita reale. Adesso mi interessa fare cose che abbiano un impatto positivo sul Paese. Sono in debito perché è vero che ho faticato, ho lavorato tanto, ho fatto tante notti e tante albe, ma ritengo che in ogni caso sia arrivato il momento del give back, come dicono gli americani, della restituzione. Arriva il momento in cui capisci che adesso tocca a te decidere che tipo di persona vuoi essere. E io voglio essere una persona migliore.

Anche suo marito lavora nella finanza. I suoi figli proseguiranno questa tradizione familiare?

Non credo proprio. Marta, che ha 21 anni, non vuole assolutamente sentir parlare di finanza e sta facendo uno stage in una azienda del lusso. Marco ha solo 17 anni e per il momento pensa solo a sciare. 

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